È un automatismo come un altro, ma in effetti, gli automatismi aiutano a trovare un punto di partenza. Uno dei miei automatismi, ad esempio, è quello di aprire un libro qualsiasi e puntare il dito su una parola a caso, come faresti su una cartina geografica per scegliere un posto dove andare. O meglio come sogneresti di fare, perché poi in realtà quella libertà non te la puoi permettere. Però con le parole sì. Quindi mi capita di fare questa cosa, puntare il dito su una parola, e da lì iniziare un processo di associazioni. Spesso funziona. Ma tornando alle citazioni, il mio amico mi dice: com’è quella frase famosa di Frank Zappa? Scrive di musica è come danzare di architettura. Pensiamo a quanto sia diventata celebre questa citazione perché non vuol dire nulla. È perfetta proprio per quello, non ha senso. Una citazione che non ha senso va bene per qualsiasi cosa. Allora si potrebbe dire che scrivere di danza è come suonare di arte visiva. Oppure che scrivere di arte è come recitare di musica. Quindi non si dovrebbe scrivere di niente. Solo suonare, danzare, recitare, dipingere. Un’orgia di performer. E scrivere di nulla. Anzi non scrivere proprio. Ho scelto di vedere lo spettacolo di Irene Russollillo guardando un suo video su internet. Non era il video di uno spettacolo, era un’intervista. Mi piaceva il modo in cui parlava del suo lavoro. Potrei andare adesso a ricercare il video e trascrivere esattamente le parole, ma preferisco affidarmi al ricordo di un’espressione che mi aveva colpito, credo di riportarla fedelmente: “un’aggressività buffa”. Parlava dei modi in cui si ricerca l’attenzione da parte degli altri, i meccanismi che ci portano a intercettare il loro sguardo. Mi ero riconosciuta nella sintesi di quell’espressione. Molte volte il modo in cui cerco lo sguardo altrui passa per qualcosa di molto simile a un’aggressività buffa. Come chi è stata troppo timida da bambina, e ha trasformato nel tempo quella timidezza in una forma prima di ritrosia, poi di ribellione. Mi capita di esprimere l’affetto in una costante opera di contestazione dell’altro. Il risultato può essere un’aggressività buffa. Non metto in dubbio che sia una posa, ma la posa è il nostro varco per comunicare. Altrimenti torniamo alla citazione di Zappa. Non si può fare niente. Solo essere costantemente puro flusso autentico e creativo. Quando sono arrivata a Latina, mi è stato chiesto: ma è il primo spettacolo di danza che vedi? Be’ insomma, okay che bisognava essere digiuni, però no, non era il primo spettacolo di danza che vedevo nella mia vita. E per un attimo ho pensato che mi dispiaceva. Ho pensato che davvero avrei voluto che fosse il primo. Mi sento un’impostora in molte cose che faccio. Molte cose di cui scrivo. E comunque vado a vedere le mostre d’arte, di fotografia, vado al cinema, vado a teatro, vado ai concerti, vado alle biennali, guardo le serie televisive. Faccio i miei commenti. Dico le cose che devo dire. Anche lì, è probabile che tiri fuori un’aggressività buffa. Tecnicamente non so fare quasi nulla. Qualche accordo alla chitarra, degli scarabocchi, regolare l’apertura del diaframma. Sempre tecnicamente non posso dire di essere digiuna. E molto spesso mi sembra di trovarmi di fronte a un dilemma: da una parte vorrei essere molto meno digiuna, vorrei capire tutto, sgamare ogni artificio retorico, ogni tecnicismo, conoscere il linguaggio per decostruirlo e tarare il mio grado di godimento in maniera esatta, dall’altro essere molto più digiuna, non capire niente, non sapere niente, non avere riferimenti culturali, non maneggiare i codici. Non per l’abbaglio dello stupore – quello non mi interessa, non me ne frega nulla, odio parlare di stupore – ma per soffrire meno, per lambiccarmi meno, per non avere la sensazione appiccicosa che forse potrebbe essermi sfuggito qualcosa, che forse non ho goduto abbastanza, o non come avrei potuto. Quando sono entrata nella sala dello spettacolo ho messo in scena – solo per me stessa – la mia personale performance. Prendi degli appunti, mi sono detta. Il grado zero del giornalismo. Descrivi l’ambiente. Le facce delle persone. I quadri alle pareti. La temperatura, il colore dello spazio. Questi appunti ce li ho. Ho segnato tutto. Non sono di nessun interesse, ma erano una forma di protezione. Vedevo Gaia, la critica che avevo conosciuto prima di entrare, prendere anche lei degli appunti. Ho cominciato ossessivamente a domandarmi cosa stesse scrivendo. Un misto di curiosità e competizione, comunque – mi dicevo – un sentimento vitale. Poi per fortuna c’è stato qualcosa di più vitale. La concentrazione si è focalizzata su due elementi: il piede e la lingua di Irene. Detta così, sembro una feticista. Vedere la capacità di movimento di quel piede è stato come il disinnesco inaspettato della mia ansia di prestazione, riconoscere l’alterità per quello che era. Avvertivo la costrizione e la rigidità dentro le mie scarpe. Però la lingua, mi sono detta. Possibile che ci fosse un allenamento, una tecnica anche per quello? Ero infastidita dalla mia impotenza. Avrei voluto provare a tirare fuori la lingua. Negli appunti che non descrivevano il luogo e le persone ho segnato queste parole: irrequietezza, fastidio, molestia, contatto, animale, seduta, pelle, skin, acqua, disturbo, coito. Quando dopo lo spettacolo sono andata a bermi un bicchiere velocissimo con Irene e Spartaco Cortesi, che ha creato con lei le musiche, ho capito che alcune di quelle parole avevano senso. Forse anche tutte, non è che debba fare la graduatoria, e non era un indovinello da telequiz. Il disagio che avevo avvertito nell’incapacità articolatoria del mio piede, il disagio sopra la sedia, il disagio dentro un ruolo che prevedeva quel disagio – una scrittrice abbastanza digiuna di spettacoli di danza che deve restituire ciò che ha visto – aveva in realtà un suo corrispettivo nel movimento del corpo che avevo davanti a me. Siamo questo per gli altri, modelli di attrazione, di sollecitudine e disagio. Fattori di disturbo nel momento stesso in cui decidiamo di intraprendere una relazione. La scrittura è un atto solipsistico, un corpo a disagio dentro uno spazio. Nel mio caso un corpo a disagio dentro un bar. Scrivo sentendo della musica che detesto (non posso a chiedere ai proprietari del bar di cambiarla). Sento le conversazioni della gente. Sento l’insegnante non madre-lingua di inglese che dà ripetizioni e affetta il suo inglese da non madre-lingua fino a un parossismo irritante. È una parodia, sa di esserlo? Mi dà fastidio tutto. Mi nutro di quel fastidio. Non riuscirei a scrivere senza quel fastidio. Lo spettacolo di Irene per me è stato quel luogo di scrittura.