Eppure siamo vivi...
Parafrasando, o meglio pluralizzando, Giovanni Lindo Ferretti, mentre scrivo dell'edizione di TenDance il pensiero che mi viene è esattamente questo: “eppure siamo vivi”.
E' stata un'edizione pazzesca, infilata ad incastro tra decreti, chiusure regionali e allarmi cittadini. Ripensata. E poi ripensata ancora. Cercando di essere prudenti al massimo. E qundi no al buffet che non si può e sì alle camere singole, no agli spettacoli in teatro per venti persone e sì alle performance ripetute, che almeno in cento le possano vedere.
E devo dire che è stato bellissimo rivedere colleghi, che poi sono anche amici, e che non avevi visto per mesi, perché in genere li incontri per lavoro e di lavoro ce ne è stato poco. Ma è stato un attimo, dopo poco di nuovo tutti chiusi. E in effetti se ci penso, molti non li ho più visti da allora. E chissàquando ci rivredremo, che al momento prevedere il fututo, anche per noi che non facciamo che fare questo, immaginare il futuro e tentare di programmarlo, è impresa ardua.
Ma torniamo a questa strana edizione di TenDance 2020, che anche quest'anno ha ospitato “Scrivere la danza”, questo progetto che curo con Graziano Graziani e che mette insieme un/una critico/a e uno/a scrittore/trice, gli fa vedere uno spettacolo e gli chiede di scriverne per poi confrontarne i linguaggi e gli approcci. Poi in un incontro, aperto al pubblico, gli/le autori/trici si incontrano con gli/le artisti/e e Graziano Graziani, con la complicità di un software che indaga tra i testi e le parole, individua comunanze, opposizioni, cerca, trova e mette in risalto lemmi e intenzioni. In genere funziona così. Ma quest'anno che era davvero, davvero diverso abbiamo chiesto invece non di scrivere di uno spettacolo, ma di un percorso di un paio d'ore che gli spettatori facevano entrando al Museo Contemporaneo MADXI di Latina, un percorso che prevedeva di assistere a tre performance dal vivo, di guardare una mostra fotografica, di aggirarsi tra tre video installazioni e di godersi una mostra di arte contemporanea.
E così il 17 ottobre Maria Genovese e Claudio Morici si sono trovati di fronte agli spettacoli di Sara Sguotti (Space Oddity), Davide Valrosso (Who is Joseph?) e Spellbound Contemporary Ballet (Unknow Woman), oltre che alle video installazioni di Giuseppe Muscarello (Quattro Canti), Paola Bianchi (Archivi di posture) e Dehors Audela (Aporie -Videodiario), alla mostra fotografica La mia pelle è teatro (a cura di Paola Bianchi, Alessandra Cristiani, Silvia Gribaudi e BriDiTanno) e alla mostra di arte contemporanea Art&Dance a cura di Carmela Anastasia e Fabio D'Achille (gli artisti esposti erano; Gabriele Casale, Alessandra Chicarella, Anja Kunze, Carlo Marchetti, Cruciano Nasca, Mauro Zazzarini). Il 18 ottobre è invece toccato a Elisa Casseri e Valeria Vannucci rifare il percorso, che confermava la parte espositiva del giorno precedente ma prevedeva invece, in versione live, Fabrizio Favale - Le Supplici (Lute Excerpt), Paola Bianchi (NRG) e Pablo Girolami – Ivona (Manbuhsa). L'incontro si è tramutato in una link alla diretta facebook nella speranza che nella prossima edizione si torni ad avere lo spazio e il modo per farlo di nuovo dal vivo. Eppure siamo vivi.
Buona lettura
Danila Blasi
Corpi che ci ri-guardano, corpi che si ribellano
di Maria Genovese
Italo Calvino
Ci accoglie con la pioggia il Madxi di Latina, un museo dedicato all’arte contemporanea diretto da Fabio D’Achille e ospitato presso la sede del Consorzio per lo Sviluppo industriale Roma-Latina. Uno spazio di 2000 mq all’interno e 3000 mq all’esterno.
Questo uno dei luoghi del TenDance, festival di danza contemporanea diretto da Danila Blasi e Ricky Bonavita.
Un museo “fuori luogo”, “fuori sede”, eppure un museo.
Questa è la prima cosa che mi colpisce in questo 17 ottobre 2020 e che mi appare fortemente simbolica della difficoltà attuale del nostro stare, del nostro essere presenti in un tempo che ci chiede di disertare le nostre vite e ci impone i luoghi dove poter essere corpo. Ma che tipo di corpo ci chiede la società? Cosa chiede agli artisti, alle danzatrici, ai performer? Come si configura oggi il confine tra chi guarda e viene ri-guardato? Con queste domande e dopo aver mancato un meraviglioso arcobaleno, mi concedo un nuovo inizio. La prima volta dopo il confinamento il mio essere spettatrice incontrerà la danza in un posto al chiuso e decisamente diverso dal palcoscenico di un teatro.
Si inizia con Aporie – Video diario, della compagnia Dehors/Audela. A specchio sono posizionati due schermi attraverso i quali ci arrivano due racconti diversi. Si indaga il sottile, il venire fuori con pudore, la condizione psico-fisica dell’esitazione intesa come qualcosa che sta prima di, che crea un diverso intervallo di tempo e che esiste anche nella pratica compositiva dei corpi in movimento. Corpi che si tendono nella distanza e vicinanza in relazione allo spazio, all’architettura che li circonda. Mani che provano a toccarsi con delicatezza, con un gesto naturale per tutti mesi fa, ma che oggi mi sembra di non ricordare più. Tendo il mio corpo nel movimento che mi porta a girare la testa da una parte all’altra per guardare le immagini. Per concedermi di esitare solo per un istante e sentire “l’aria che circola tra le cose”, le sfumature del possibile.
Gli spettacoli in presenza, previsti per oggi sono Space Oddity di e con Sara Sguotti, Who is Joseph di e con Davide Valrosso e Unknown woman, coreografia Mauro Astolfi, interprete Maria Cossu.
In una sala che sembra una teca di vetro, gli spettatori e le spettatrici siedono distanziati, in attesa del primo spettacolo del giorno. Dai vetri arrivano gli ultimi raggi di sole di un pomeriggio che cede il passo alla sera. Sara Sguotti entra sulla musica di Space Oddity, di David Bowie, canzone che da anche il titolo al suo lavoro. Fin da subito è evidente che questo spettacolo è costruito per il pubblico. I movimenti di Sara, sono molto decisi e tracciano lo spazio in molteplici direzioni creando un rapporto continuo e diverso con il luogo che la ospita e con le persone. Una presenza potente della danzatrice ci regala un corpo che non ha esitazioni, che rivendica la presenza, senza timore di perdere l’equilibrio e che si apre totalmente al dialogo. Un dialogo che si fa più intimo e che diventa solitudine aperta ed esposta, quando qualcuno dalla sala prende parte su invito della stessa Sguotti, alla partitura coreografica. Allo spettatore viene chiesto di posizionare una sedia sulla quale sedersi e tenere in mano una clessidra delineando così in autonomia, il tempo della performance. Un nuovo spazio si crea su musiche che arrivano da una playlist casuale e accade quello che non può essere programmabile. Due corpi che nella loro diversità comunicano attraverso la danza, in una doppia distanza, quella che esiste tra loro e quella con il resto della sala. La clessidra si ferma e un applauso pieno e fragoroso, chiude lo spettacolo. Si cambia sala e inizia il lavoro di Davide Valrosso che parte seguendo la circolarità con la quale sono sedute le persone in sala e creando una prima relazione attraverso lo sguardo. Pone delle domande il performer ma non da risposte, che ricerca continuamente all’esterno, offrendo in cambio forza, fragilità, respingimento, dolore, solitudine e presenza costante che delinea una composizione coreografica che si costruisce a strati. Quasi un uscire fuori da sè, dalla propria pelle con un corpo che urla cercando di annullare lo spazio intorno e creare contemporaneamente una tensione che continua a porre domande. Chi è Joseph? Chi siamo noi?
Chiude la serata Maria Cossu, una danzatrice che riesce dal primo secondo della performance a rendere inesistente qualsiasi distanza con chi guarda. In gioco tutte le fibre di un corpo, che si muove tra tensioni ed abbandoni. Un corpo capace di parlare alla parte più profonda e intima di sé e di chi lo osserva, quasi fino a non distinguerne più i punti di confine. Un racconto fatto di pensieri, memorie, segreti che arrivano attraverso movimenti che cristallizzano il tempo in una sospensione poetica capace di annullare la presenza per restituircela in una forma che raggiunge il sublime.
Di corpi e spazi, raccontano anche le video installazioni presenti nel museo. Si parte da Archivi di posture della performer Paola Bianchi in cui vediamo diversi corpi, in corpi diversi, delineati dalle posture assunte dopo aver ricevuto delle indicazioni in audio dalla stessa Bianchi. Corpi che si fanno memoria, che diventano ospiti di immagini create dalle parole e conservano la propria identità nelle diverse forme che assumono. Che chiedono il diritto di esistere come presenza silente agita dalla parola che ne determina uno spazio in cui riconoscersi e sentirsi.
Palermo è la città che sceglie Giuseppe Muscarello per la video installazione 4Canti, parte di un progetto più ampio.
Eolo, Venere, Cerere e Bacco. Quattro divinità che il performer fa danzare creando per ognuna un diverso movimento tra corpo che resiste e che si abbandona. Che si fa doppio di sé ma che si scompone anche in tanti corpi identici e pregnanti. Un corpo che si fa assenza di volontà e si fa guidare dai fili che arrivano dall’alto come una marionetta, un pupo nelle mani di una grande madre alla quale affidarsi solo per il tempo di un breve riposo e poi ricominciare a danzare.
Le mie domande a fine serata sono un po’ meno domande.
Questo festival mi ha dimostrato che si può rispondere alle richieste del presente continuando ad esserci sia pure nelle difficoltà reali e tangibili. Che le forme della presenza possono essere diverse ma possibili e che i corpi sono in grado di trovare strade inesplorate più di quello che riusciamo ad immaginare. Penso alle persone che sono venute oggi. Ai loro applausi così carichi di emozione, di desiderio, di vicinanza.
Mi fermo ad osservare ancora una volta le foto della mostra “La mia pelle è teatro” a curata di Paola Bianchi, Alessandra Cristiani, Simona Gribaudi, BriDiTanno. In quei pezzi di pelle che si espongono senza difese, trovo tutta la forza di un gesto politico, di una rivendicazione umana ancora prima che artistica. Di una parte intima di sé che si concede e si fa dimensione e parola collettiva. E questo pensiero mi riporta all’inizio del festival, a Sakura, a quell’esserci, corpi e anime in una piazza, a guardare e a farci guardare, a rifiorire, attraverso un’azione fatta di danza e di parola, ad un tempo che necessita della distanza fisica ma non della nostra assenza o dei nostri ipotetici confini
Partiamo da un presupposto
di Claudio Morici
Non conosco bene neanche la strada per il TenDance, quindi sbaglio due volte e ci arrivo pelo pelo. Parcheggio, corro, mi faccio sparare la temperatura, entro e mi accorgo subito che la maggior parte del pubblico sono addetti ai lavori. Si chiamano per nome, chiamano per nome gli artisti che stiamo per vedere, hanno il fisico da danzatori o da danzatrici di qualsiasi età.
Normalmente avrei alzato le difese. Prima del coronavirus in queste situazioni era tutto un tripudio di abbracci a destra e sinistra, davanti ai teatri, durante le anteprime dei film, tra uno spettacolo e l’altro di un festival, non facevi altro che vedere questi abbracci interminabili, abbracci strettissimi, abbracci con il pubblico che ti guarda e nota il massaggetto dietro la schiena e magari frasette tipo “mi sei mancato”, quando in realtà ti sei visto tre giorni prima in un contesto identico. Quelli che un mio amico chiama “abbracci dello spettacolo”. Abbracci di cui ogni tanto, terrorizzato, sono caduto vittima anche io, ma molto più spesso ho dovuto subire come osservatore passivo, come spettatore forzato.
Con il coronavirus fortuna è tutta un’altra cosa. Qualche vantaggio c’è in questo periodo, penso. Allungo un paio di gomitate e vado verso la prima installazione.
Sono 6-7 schermi, che riprendono persone di ogni età, scontornate male su sfondo bianco, in movimenti e posture messe a punto direttamente dal quotidiano, in quarantena. “Archivi di Posture” di Paola Bianchi. Una delle tante idee che ci sono venute i primi giorni del lockdown, come le riprese ben montate di chi faceva sport sui balconi, le corse per buttare la mondezza, le luci accese in tutte le finestre, le canzoni cantate in 50 stile We are the world. Qui è stato chiesto ai rappresentanti di noi tutti di riprendersi in movimenti a caso che, in qualche modo, visti tutti insieme, mettono a nudo i sintomi del vivere in pochi metri quadrati. Ricordo che un amico ex carcerato, anni fa, mi disse che avrebbe potuto riconoscere facilmente un altro ex carcerato per strada, solo osservando come camminava.
La prima performance è di Sara Sguotti. Ci sediamo tutti davanti a lei, con la mascherina ben alzata. Inizia a muoversi con i raggi di sole, che entrano dal finestrone e colpiscono negli occhi lo spettatore con la musica di David Bowie, Space Oddity, da cui prende il nome anche la performance. Spero con tutte le mie forze che lo abbiano fatto apposta: mentre il protagonista della canzone fluttua nello spazio e ci racconta che vede la luna, che vede la terra tutta blu, noi, come Sara Sguotti, ora vediamo solo il sole. Una clessidra è sulla sedia e diventa uno strumento in mano allo spettatore meno timido, che raccoglie l’invito di sedersi e decidere quando ne ha avuto abbastanza. La musica passa dai Pooh ai Flaminio Mafia (forse), fino a raggiungere un’elettronica ambient che in pochi minuti mi manda in trance. Da inesperto della danza, sono come un tredicenne che si fa i primi tiri di canna e gli gira la testa. Ipnotizzato dai movimenti, rimbambito dalla musica, mezzo soffocato dalla mascherina, col sole in faccia, comincio a pensare a una serie di cose personalissime, che non potrei mai scrivere in questo articolo. Ma forse anche io fluttuo nello spazio della mia testa e vedo che questi pensieri, da lontano, sono blu come la terra.
Nell’attesa del secondo spettacolo, noto con soddisfazione diversi scambi di gomiti che un tempo sarebbero stati abbracci devastanti. E ascolto tante considerazioni sul distanziamento, il futuro del teatro, i soldi, la sopravvivenza. Poi dò un’occhiata a un’altra installazione, quella di Dehors Audela, e mi accorgo che mi piace tantissimo. Tre personaggi, introdotti sempre da una scritta, interagiscono tra loro narrando con i corpi diverse situazioni. Qui non c’è la clessidra ma c’è un pendolo, con i tre che si muovono a tempo, mimando la dinamica dell’avanti e indietro, del moto perpetuo destra sinistra, vengo me ne vado, ti tocco non ti tocco. Poi entra la scritta: “Due minuti di pudore” e per circa due minuti c’è uno dei personaggi che fa entrare lentamente la mano nelle mutande dell’altro, mentre il terzo li fissa immobile. Immagino che la danza sia anche questo movimento, una mano che entra nei pantaloni in quel modo, dall’alto, come se la infilassi per rubare un portafogli. Mi ci immergo talmente che, quando ci chiamano per il secondo spettacolo, preso dalla fretta, scambio una vetrata pulita benissimo per l’uscita. Giuro, mi ci schianto contro. Si sente un botto infernale. Per un attimo le persone lì davanti pensato che sono morto. Vaglielo a spiegare che non mi sono fatto niente. Insomma, due minuti di pudore anche per me.
Il secondo danzatore è Davide Valrosso. Lo accogliamo tutti seduti, con la mascherina che piano piano, mi sembra già più normale. Sono uno spettatore quindi indosso la mascherina. E’ come indossare il preservativo, penso. Dopo un po’ di volte ti abitui, è più o meno la stessa cosa. Valrosso ha il cappelletto abbassato che gli nasconde il volto e una specie di tenuta da arbitro abbastanza spiazzante. Comincia a usare lo spazio scenico costruito con le sedie a circolo degli spettatori. Sfrutta la forza centrifuga inventandosi i tasselli per costruire un personaggio che mi sembra perdersi e ritrovarsi, perdersi e ritrovarsi. Qui la musica elettronica duetta con il continuo rumore delle scarpe da ginnastica sul pavimento. Una specie di tip tap anni novanta. Quando finisce Valrosso è immobile, stanchissimo prende fiato e dopo l’applauso si toglie il cappelletto. E solo adesso mi sembra di guardarlo in volto, di capire chi è e cosa ha fatto finora. Poi fa un bel sorriso. E non posso fare a meno di notare che molte donne (circa il 70% del pubblico) aumentano proprio in quel momento l’intensità delle loro mani l’una contro l’altra.
La terza istallazione è di Giuseppe Muscarello. Il suo corpo si muove su vari schermi dando l’impressione di una danza a 360 gradi. Non riesco a seguirlo. Prima di venire qui, ho parlato al telefono con un mio amico attore che sta preparando le prove di uno spettacolo, un classico del teatro, che verrà ripreso con telecamere speciali e fruito con il visore della playstation. Non vi dico di più altrimenti mi denunciano, ma l’istallazione di Muscarello mi ha fatto pensare a questa recente accelerazione degli esperimenti che uniscono performance dal vivo e tecnologia, dovuti al tentativo, forse un po’ disperato, di trovare una fruizione senza rischio contagio. Ma magari l’ha pensata prima, non lo so, fatto sta me l’ha fatto pensare.
Maria Cossu, nella terza e ultima performance, sembra venuta invece da un’altro pianeta. Racconta che il corpo umano può essere mosso sembrando un’altra cosa, un insetto, un marziano, una macchina, un pipistrello e quanto, proprio trasformandosi in qualcos’altro, ci mostri proprio se stesso, proprio il corpo umano. Dopo aver dato tutto e avermi trasportato anche lei in una serie di pensieri personalissimi di cui non posso parlare, Maria Cassu si prende i tanti applausi e fa una cosa che non avevo mai visto fare. Si nasconde dietro una specie di pilone accanto allo spazio scenico. Funziona da camerino immagino. Il camerino-pilone. Anche io mi sarei messo lì dietro. Del resto come fai dove aver viaggiato in tutti questi mondi corporei, come fai poi a farti vedere normale? Hai bisogno del camerino. Va bene anche un camerino-pilone, se non ce n’è uno normale. Che mette anche un po’ di tenerezza, perché è un po’ come nascondersi dietro un dito, ma hai comunque diritto a scomparire, devi proteggerti prima di tornare da noi. Così come gli spettatori, in questi giorni, devono essere distanziati, gli spettacoli replicati più volte nello stesso giorno per fare entrare tutti, il pubblico mascherato e gli abbracci impossibili (bellissima quest’ultima cosa però, speriamo che la prolunghino).
Tutti i danzatori che ho visto oggi hanno fatto almeno un gesto identico. Sono stati gli unici a togliersi la mascherina. Tra le cose che differenziano pubblico e performer, nell’infinito dibattito sulla questione, possiamo dire che, in questo periodo storico, il pubblico indossa la mascherina e il performer no. Il perfomer fa la performance di essere più normale, più naturale, più ordinario di noi. E ci ricordano il passato
TenDance Festival
di Elisa Casseri
Dovremmo studiarli questi corpi che ci trasciniamo dietro, li dovremmo osservare nelle loro singole parti – occhi, pelle, muscoli, movimenti, organi di senso –, capire che lingua parlano e starli ad ascoltare. Forse non basterebbe, ma sarebbe almeno un in(d)izio, un alfabeto da cui partire, una piccola arma contro questi tempi scarnificati. Come difendersi altrimenti da un presente in cui il corpo prima di ogni altra cosa è ospite, veicolo, minaccia di contagio? Come competere contro se stessi quando tutto spinge verso l'impacchettamento dell'umanità in una condizione incorporea? Come provare a bilanciare i coefficienti stechiometrici della realtà per trovare un equilibrio?
Al MADXI di Latina, per il festival di danza contemporanea Tendance, ci sono arrivata così: senza alcuna competenza sul corpo, disarmata da questioni di vario genere sulla prossemica del presente e con una mascherina a coprirmi metà della faccia. Quello che mi sono trovata davanti sono state una serie di dispersioni.
La prima forma di dispersione incontrata è stata una diffusione ottica, uno scattering reso possibile dai lavori di Paola Bianchi: l'Archivio di posture, la performance NRG e la serie di fotografie La mia pelle è teatro, concepite insieme ad Alessandra Cristiani, Silvia Gribaudi e BriDiTanno. Come succede alla luce quando si disperde a causa dell'incontro con particelle più o meno macroscopiche, in questi tre lavori l'idea di corpo si forma, si deforma, si parcellizza e si trasforma a causa del suo incontro con la memoria del tempo.
NRG, la performance di Paola Bianchi è uno sparpagliamento emotivo: il suo corpo diventa il contenitore di dolore, storture, sensazioni e posizionamenti che permettono a chi la guarda di vedere le componenti spettrali di quella luce che è il nostro passato, inteso come tempo che ci ha fatto diventare chi siamo o che ci ha fatto smettere di esserlo. Da quello studio, nasce l'Archivio di Posture, che è una videoinstallazione fatta didieci schermi che rimandano dieci diverse immagini, identiche nella maniera in cui sono state descritte dall'artista alle persone che l'avrebbero rappresentate, ma diverse – di molto o di pochissimo – nella rappresentazione che ne è stata fatta. Questo scattering ha un meccanismo diametralmente opposto a quello della performance NRG: perché non è più una persona che diventa il mezzo di trasporto di tante immagini, ma una sola immagine che diventa mezzo di espressione di tante persone. Quello che ne consegue è riuscire a mostrare il corpo come se fosse un dispositivo corale.
La mia pelle è teatro, invece, frammenta quella terra di confine che è la nostra epidermide in immagini microscopiche, creando allo stesso tempo uno spaesamento e una riconciliazione. Si tratta di una dispersione ottica del presente, di una memoria del tempo ancora non formata ma agente. Il taglio quadrato delle foto le fa sembrare una tavola periodica degli elementi – io se avessi potuto le avrei staccate e riattaccate in altre posizioni, usandole come un alfabeto anatomico da cui ripartire.
La seconda forma di dispersione incontrata è stata una disseminazione, ovvero il fenomeno grazie al quale i semi arrivano in un terreno dove poter germinare.
In questo senso, Manbuhsa di Pablo Girolami/Ivona mette in scena il processo attraverso il quale si può arrivare alla base dell'istinto, lasciandosi sedurre dal naturale: la coreografia è una sorta di disseminazione zoocora che mostra come la componente più animale e terrena del nostro corpo possa diventare veicolo per una riscoperta vitale e per una contaminazione con l'altro.
Anche i 4canti di Giuseppe Muscarello si porta dietro il senso della dispersione spaziale di un seme, ma in questo caso, grazie a una videoinstallazione fatta di 4 schermi che circoscrivono il corpo di chi la osserva dentro una piazza deserta, è lo spettatore a diventare seme e incrocio, con intorno quattro divinità danzanti che rappresentano le stagioni. La solitudine e lo smarrimento del seme (e dello spettatore, che non sa dove guardare, non sa da dove cominciare per decodificare la sua identità e il suo posto) contrastano con la consapevolezza con cui Eolo, Venere, Cerere e Bacco mostrano chi sono: corpi senza corpi, essenze significanti, reazioni chimiche.
Lute Excerpt di Fabrizio Favale, invece, è tutto tegumento, involucro di organismo, fenomeno da osservare: i piedi di uno dei danzatori fanno attrito sul pavimento e sembrano una lingua impossibile da riprodurre ma facile da ascoltare; le tute indossate da entrambi segnano quello stesso senso di confine che La mia pelle è teatro scompone, tenendola invece tutta intera, almeno fino a un certo punto. Quando la testa viene liberata dalla superficie di separazione luccicante tra l'ambiente esterno e interno, i movimenti sembrano pulsare, dando un senso di speranza, come se la spogliazione diventasse un'armatura.
La terza forma di dispersione che ho incontrato è stata una sospensione. Chimicamente, si tratta di una miscela eterogenea in cui le fasi componenti non si amalgamano e sono quindi facilmente distinguibili, come succede con le Aporie di Dehors/Audela. La videoinstallazione è fatta di due schermi, messo uno davanti all'altro, in cui ci sono sempre gli stessi tre personaggi sospesi che non riescono a sedimentare, come le particelle della fase dispersa. La triade è immobile, ma l'immobilità sembra ondeggiare impercettibilmente, come se fosse percepibile il movimento su cui gli artisti stanno indagando: l'esitazione, l'impossibilità di una risposta, la mancanza di azione.
Dal MADXI di Latina, dal festival di danza contemporanea Tendance, sono andata via così: diffusa, disseminata, sospesa e con una mascherina a coprirmi metà della faccia. Scrive Jonathan Safran Foer in una parentesi di Eccomi che l'anima è «l'unica cosa che richiede di essere dispersa per accumularsi».
Necessità e resistenza negli Itinerari di confine
di Valeria Vannucci
Per la giornata del 18 ottobre gli spazi del Museo Contemporaneo Madxi di Latina hanno accolto tre installazioni e tre spettacoli affianco alle opere di Gabriele Casale, Alessandra Chicarella, Anja Kunze, Carlo Marchetti, Cruciano Nasca e Mauro Zazzarini per la mostra Art&Dance a cura di Carmela Anastasia e Fabio D’Achille. Con la creazione del videodiario Aporie, il collettivo Dehors/Audela, fondato da Elisa Turco Liveri e Salvatore Insana, ha ideato un’installazione che indagasse il principio dell’esitazione nella dimensione coreografica e dell’intervallo come spazio di riferimento. «Noi non sappiamo cosa fare, come fare, quale risposta dare. Noi sappiamo cosa non fare, come non fare, quale risposta non dare», tutto ciò che rimane diventa il riflesso di una potenzialità espressa tramite due schermi che rimandano l’uno all’altro, alternando scenari ed evoluzioni di movimenti non (de)finiti. Un altro percorso nato in seno al periodo del lockdown riguarda 4Canti, la video installazione del coreografo, danzatore e performer Giuseppe Muscarello, che a partire dalle suggestione del Teatro del Sole di Palermo ha elaborato una ricerca su diversi codici di movimento in relazione ai quattro apparati decorativi della piazza rappresentanti le antiche divinità. Venere, Bacco, Cerere ed Eolo diventano espressione di identità molteplici, diverse eppure riconducibili allo stesso nucleo d’origine e appartenenti a quell’altrove che solamente la madre patria può accogliere nella propria essenza plurima. Questo carattere, lo studio sui confini, si riflette anche nell’esplosione di formati in cui il coreografo ha riversato la ricerca sui 4Canti – realizzando sotto lo stesso titolo anche una performance dal vivo, un corto di videodanza e un progetto di virtual reality – in cui i quattro schermi si costituiscono come lenti d’ingrandimento di realtà sfaccettate, dirompenti e mutevoli.
In una direzione di ricerca decisamente formale si inserisce la proposta presentata da Fabrizio Favale/Le Supplici, che con un impianto coreografico di matrice neoclassica ha presentato Lute Excerpt in una delle sale espositive del museo. Riprendendo un termine dell’antico dialetto italico, i danzatori Daniele Bianco e Vincenzo Cappuccio riversano sulla scena quelle qualità dello scintillare del fuoco cui si riferisce la parola Lute, estraendo il magnetismo di questa espressione nella ricerca di pulsazioni di movimenti combinati e opposti. L’evanescenza perseguita, d’altra parte, proprio per la precisione formale del disegno coreografico, si indebolisce nel rigore geometrico dei corpi, il cui contrasto invece che enigmatico si rivela nell’accuratezza lirica della rappresentazione scenica.
Nell’ambito della sua ricerca sulle posture, la coreografa e danzatrice Paola Bianchi ha presentato NRG, «una coreografia di pelle, una poetica del corpo muto» che compone il proprio materiale a partire dalla costruzione di archivi retino-mnemonici, in cui è il processo di incorporazione delle immagini da parte della coreografa a comporre il tessuto coreografico. Le tensioni, i riverberi e particolarità residuali che emergono da questo studio vanno a delineare una coreografia pulsante che guarda al corpo come luogo privilegiato per la ricerca di stati inediti appartenenti alla memoria di qualcun altro, incorporati e sconfinanti. Partire dalle forme per annullarle, per cercare l’informe e avere quel contatto col vuoto che diventa terreno fertile per la creazione sono i segni del corpo come luogo delle immagini, da cui è possibile scovare lo spazio di consonanza con l’altro.
Fra scoperta e incontro con l’altro si muove anche il lavoro di Ivona, compagnia fondata da Pablo Girolami che ha visto nascere il suo primo lavoro Manbuhsa grazie alla collaborazione col danzatore Giacomo Tedeschi. Partendo da una ricerca che trova nel mondo della natura l’origine della danza e del movimento, i due corpi sulla scena rintracciano le dinamiche del corteggiamento animale nella sincronia, nella sensualità, nella curiosità e nell’accoglienza, decostruendo i movimenti di partenza al fine di creare nuove dinamiche e spazi di inclusione nella dialettica fra riconoscimento di sé e dell’altro.
Trasmissioni: sconfinare fra conservazione e sviluppo
È possibile descrivere la trasmissione in diversi modi, un passaggio, una contaminazione, un donare dell’esperienza o il riversarsi della memoria, persino il tramandare in divenire di un sapere fra un confine e l’altro.
Ancora nel segno degli Itinerari di confine i festival TenDance e Teatri di Vetro hanno organizzato due giornate di studio sulle metodologie e sulle pratiche di trasmissione, indagandone i paradigmi e le declinazioni attraverso le esperienze di diversi artisti e studiosi nel campo della danza contemporanea, concentrando le riflessioni sui Modelli e sperimentazioni tra verticalità e orizzontalità. Se nel primo caso la dimensione pedagogica muove da un unico vettore principale verso i vari sistemi cui è destinata la ricezione, nella dinamica di trasmissione dal maestro agli allievi su cui si è svolto il primo incontro del 26 settembre 2020 a Tuscania, in questa occasione Danila Blasi e Roberta Nicolai riportano la riflessione sulle relazioni che coinvolgono processi di apprendimento orizzontale, focalizzando i nuclei tematici del discorso su alcune fra le attuali sperimentazioni presenti nel panorama della danza contemporanea. Dunque all’interno degli spazi del Museo Contemporaneo Madxi di Latina, oltre alle opere d’arte visiva e installazioni che si mescolano negli stessi ambienti in cui vengono ospitate le performance, la giornata del 18 ottobre ha presentato i percorsi di ricerca di Anna Albertarelli, Fernando Battista e Paola Bianchi per osservare i caratteri pratici di quegli artisti che hanno fatto della trasmissione parte integrante del loro lavoro. Partendo tutti da una dimensione laboratoriale, il percorso della coreografa e formatrice Anna Albertarelli pone le sue basi su una pedagogia che lavora sull’integrazione principalmente attraverso la contact improvisation e il teatro fisico, sviluppando la pratica specifica da lei ideata Corpo Poetico® Ricerca per altri movimenti DanzaTeatroDisabilitàIntegrazione e condotta con diversi gruppi in percorsi di studio sul territorio nazionale e internazionale. Per «trovare gli spazi vuoti, i luoghi del non fare», i primi punti di riferimento riguardano la riscoperta della corporeità per tutti i corpi, il rigore come attenzione alle fragilità, il diritto per tutti di danzare e mostrare la propria fisicità, attraverso una ricerca che modelli atti di creazione e lavorando su azioni che vadano a scardinare i pregiudizi sulla disabilità. Un processo di responsabilizzazione e ritorno alla consapevolezza del corpo riguarda anche progetti pensanti per i giovani in rapporto all’uso delle tecnologie, una trasmissione di strumenti e conoscenza che con Inside<>Outside vuole tutelare e sensibilizzare rispetto all’uso dei mezzi digitali.
Ancora sul pregiudizio e sulla pedagogia del confine si sviluppa il lavoro di Fernando Battista, coreografo e performer che indaga i processi di integrazione attraverso il movimento nell’ambito della community dance all’interno di laboratori con adolescenti. In questo caso, per scardinare i meccanismi di conflitto che riguardano il corpo e l’adolescenza nei vari contesti sociali e culturali, il processo propone ai partecipanti in prima persona la possibilità di mettersi in gioco e guidare il resto del gruppo, condividendo saperi e sviluppando un dialogo fra movimento, gesto e forme in continua contaminazione. Se non è possibile rompere i pregiudizi – seguendo la riflessione di Fernando Battista – questi metodi di trasmissione possono contribuire a trasformarli, accogliendo la propria diversità e quella degli altri, sperimentano quel luogo/non luogo di confine che riguarda i significati del corpo nell’ambito della comunicazione e della relazione.
Concentrando la sua ricerca sulla «trasmissione/enazione della danza attraverso la parola descrittiva», la coreografa e danzatrice Paola Bianchi traccia un percorso di studi sulle posture atto a sviluppare un processo di incorporazione che non si rifletta nelle dinamiche di imitazione, focalizzando il fulcro della sua riflessione sull’essere piuttosto che stare sulla scena. Inaugurando questo percorso nel 2013 con la sperimentazione di coreografie verbali, durante il periodo del lockdown Paola Bianchi ha lanciato una call che proponesse, attraverso i canali social, la possibilità di partecipare alla raccolta fotografica di varie posture per la costruzione di un vero e proprio archivio di immagini, che ha generato azioni coreografiche e performance a partire dallo stesso materiale, comprendendo anche una video installazione di dieci posture presentata nell’ambito del Festival, intitolata appunto Archivi di posture. In questo caso i canali di trasmissione partono dagli occhi dei partecipanti, invitati dalla coreografa a riproporre quelle posture che si sono fissate nella loro retina, per poter ritornare agli stessi attraverso le sue indicazioni vocali. La trasmissione con le registrazioni consente al lavoro di eliminare sia il fattore dell’imitazione sia quello del giudizio, rendendo questa raccolta – che comprende le immagini di 150 persone – un canale generativo per diversi processi di creazione.
«Luoghi di confine e vite vissute al confine. Corpi e menti borderline, liminari, di confine. Confine come possibilità di diversità di vedute, emozioni culture», è questo uno degli intenti principali di TenDance 2020, edizione dedicata al codirettore artistico del festival Theodor Rawyler recentemente scomparso. Rimanendo sul terreno della trasmissione, la cultura di confine di cui il coreografo si è sempre occupato trova il suo prezioso riverbero nell’incorporazione di memorie, esperienze e passioni che Danila Blasi e Ricky Bonavita conservano e sviluppano incontrando quei crocevia culturali su cui rifondare comunità possibili, di cui la danza rimane il terreno fertile di sperimentazione e scoperta.