Scrivere la Danza 2024

Scrivere la Danza 2024

 

Scrivere la danza, o meglio danzare la scrittura

Danila Blasi

Un anno strano questo 2024 per il festival Tendance. All'insegna della ristrettezze economiche dopo il taglio del finanziamento regionale, arrivato, in maniera davvero inaspettata, lo scorso anno, a giochi già fatti e festival ormai concluso, lasciandoci con il morale a terra, il cuore dolorante e trentamila euro di buco di bilancio.
Affrontare quindi questa edizione del festival sapendo già di dover contenere le spese è stato davvero complicato. L'idea di dover fare un festival “ridotto”, con meno attività, meno spettacoli, meno compagnie, non ci piaceva affatto.
Ma per fortuna la comunità della danza è sensibile alle disgrazie dei propri membri e si è lanciata senza remore in nostro soccorso.
Solidarietà reale, materiale, fisica. Presenza.
E quindi alla fine abbiamo fatto un bel festival, pieno di tantissime cose. Spettacoli, studenti, scrittrici, mostre, film, colori, performance, artiste, musica, scrittori, corpi, artisti, laboratori, installazioni, incontri, studentesse.
Un'edizione veramente speciale, fatta con rabbia e con amore. Che poi alla fine lo sappiamo, vince sempre l'amore.
Così anche per Scrivere la danza abbiamo immaginato una formula speciale. Che non mettesse a confronto due spettacoli, ma due intere giornate di Tendance. Giornate piene, decisamente. Due spettacoli brevi, due pezzi brevissimi, una mostra, una performance e un video, che guarda caso è anche il titolo di uno dei pezzi scritti per questo progetto, quello di Francesca Guercio. Che io me la sono immaginata, lei e anche Carla Romana Antolini, quando è arrivata la nostra richiesta: - dovreste scrivere su due spettacoli brevi, due pezzi brevissimi, una mostra, una performance e un video. - Ma certo e nient'altro? Magari una pulita al palco? Una mano in biglietteria?
Diciamolo onestamente: se Francesca e Carla non fossero entrate nello spirito di Tendance ci avrebbero beatamente mandato a quel paese e noi non ci saremmo affatto stupiti.
Ma Francesca e Carla non solo sono entrate nello spirito del festival, ma sono sembrate essere loro stesse un'incarnazione dello spirito stesso in questione.
E quindi non si sono sottratte. Hanno scritto. E hanno scritto due pezzi bellissimi. Che per noi che eravamo così angosciati all'inizio di questo festival sono stati come una pomata per le ferite dell'anima. Pomata cicatrizzante, pomata rigenerante, per noi, frustrati e pieni di dubbi. Noi che ci chiedevamo se fare questo festival avesse ancora un senso. Perché se un'istituzione, che ha sempre avuto fiducia nel tuo lavoro, ti dice che il tuo lavoro non vale più molto, tu ci credi. Anche se sai che non è vero ci credi. E ti metti in discussione.
Poi leggi questi due pezzi. E torni ad essere sicuro di quello che fai. Del tuo lavoro, ma soprattutto del senso del tuo lavoro.
Perché leggendo vedi che arriva forte e chiaro: il superamento dell'egoprotagonismo, un manuale di sopravvivenza. Restituito da scritture - generose come generose sono state Francesca e Carla - così simili nella loro essenza quanto diverse nelle modalità. Ma che restituiscono lo stesso sguardo sul nostro festival.
E se è vero che questa edizione di Tendance è stata davvero speciale, altrettanto lo è stato questo progetto. Quindi ringrazio dal più profondo del cuore chi è riuscito in maniera così sorprendente a far danzare la scrittura.

Scrivere la danza

Graziano Graziani

C’è forse qualcosa di imprevisto che si è verificato in questa edizione 2024 di “Scrivere la danza” ed è, io credo, un imprevisto davvero stimolante. L’ipotesi di lavoro di “Scrivere la danza” – lo ricordiamo ancora una volta in questo report – è vedere cosa accade quando due persone, professioniste della scrittura ma con approcci differenti, assistono a un medesimo spettacolo e ne scrivono. Nello specifico di quest’anno una critica e una scrittrice di romanzi: Carla Romana Antolini e Francesca Guercio. Tra il linguaggio specialistico della critica e quello immaginifico della prosa (o della poesia, che abbiamo ospitato in edizioni precedenti) c’è sempre uno iato che apre interrogativi sullo stile di racconto, ovviamente, ma anche sull’ipotesi se non sia l’osservatore stesso – come avviene per la fisica – a influenzare la natura dell’oggetto. Nelle arti sceniche è sempre un po’ così, e gli stessi artisti giocano spesso su questo flusso di elementi che si muove in continuazione tra scena e platea (energia, prossemica, percezione, etc…); ma quando cadono alcuni codici che accompagnano l’esperienza della visione e la sua analisi (dal lato critico), quello che si schiude può essere davvero imprevedibile.
L’imprevisto di questa edizione 2024, tuttavia, riguarda una somiglianza più che una differenza. Perché è vero che, come ci si poteva aspettare, la cronaca di Carla Romana Antolini segue un andamento analitico, progressivo in senso diacronico, con un racconto che segue il flusso degli eventi, che fornisce dati e coordinate di quello che stiamo vedendo e che si chiude con una considerazione sugli obbiettivi (centrati) di politica culturale dell’intera manifestazione. Ed è altrettanto vero che, come era presumibile, Francesca Guercio ha scelto un approccio svincolato dalle necessità giornalistiche e ha utilizzato la prima persona, persino il dialogo, per imprimere una scossa narrativa all’intera relazione, che si sviluppa come un racconto prima a voce singola, poi a voce sdoppiata, e che non disdegna nemmeno di proporre un certo grado di “analisi” non critica, ma psicanalitica dell’esperienza estetica vissuta. Ma c’è un “ma”. Entrambe le scritture convergono su una progressione temporale, su un volo radente con cui gli eventi in programma nell’intera giornata vengono raccontati, snocciolati, come una progressione di apparizioni. E qui sta il nodo: il format di quest’anno, incentrato non su un singolo spettacolo ma sulla cronaca di un’intera giornata di eventi, ha probabilmente stimolato una convergenza di approccio nella sostanziale divergenza di stili.
Nel flusso artistico, potremmo spingersi a dire, lo sguardo del critico e quello dell’osservatore comune – questo è un po’ l’ipotesi di “Scrivere la danza”, anche se scegliamo osservatori comuni che hanno una familiarità con la scrittura – finiscono per fare un’esperienza simile. Che è l’immersione nel flusso. Siamo tutti in viaggio lungo un percorso dove si schiudono performance, visioni, relazioni tra artisti e artisti e tra artisti e spettatori, un ambiente immersivo che prende le fattezze della scoperta e dell’incontro. E allora che questo viaggio sia raccontato con l’acume e l’ironia di Francesca Guercio o con l’analisi precisa e dalla prosa piana e comprensibile di Carla Romana Antolini da questo punto di vista poco cambia: il percorso resta il tratto dominante.
Poi, chiaramente, c’è lo stile. E in quello la libertà compositiva della narrativa può permettere di aggiungere un filtro (quello dell’io, e del pensiero che reagisce non solo a quanto viene visto, ma anche al “perché” si è lì) che il linguaggio giornalistico, giustamente, non aggiunge. Colpisce da un lato la chiarezza e la compattezza degli intenti del testo di Antolini a cui fa da controaltare lo sdoppiamento ironico del report di Guercio. Due linguaggi che si muovono sul crinale della ricerca dell’oggettività (il primo) e della resa incondizionata alla propria soggettività (il secondo).


TENDANCE (di Carla Romana Antolini)
Arriviamo a Tendance portati al mare da uno dei progetti più caratteristici e interessanti del festival, un laboratorio di comunità di donne in danza che tanto ci sa parlare della capacità di vibrare insieme delle donne in gruppo e che ci chiarisce subito che qui si sta lavorando da anni perché la parola noi sia protagonista proponendo il superamento dell’egoprotagonismo. E’ un invito pratico ad avere il coraggio di scoprire a coltivare sensibilità e capacità nuove di risposta per il nostro pianeta infetto. E così tutto il festival ci appare, con Donna Haraway, convivere con quel We have a trouble creando una sorta di manuale di sopravvivenza alla catastrofe imminente che ci incoraggia a essere curiosi e agire relazioni e connessioni inedite.
E sono senz’altro inedite le connessioni proposte dai materiali Tiresias Bside da testi di Kae Tempest, dove la donna è nata per essere, dove ognuno è molteplice fino a domandarsi quanti tu porterai. E le sovrapposizioni e i dialoghi si moltiplicano quando gli organizzatori ci incoraggiano a girare il museo ascoltando le parole di Tempest in cuffia. L’incontro con le foto di Mariangela Raponi in questo viaggio ha un effetto dirompente.
A seguire abbiamo assistito ad uno dei “Pezzi” di Paola Bianchi eseguiti da due giovani danzatrici con una modalità dove la coreografa non propone l’imitazione del suo essere in scena, ma si mette da parte per dare alle danzatrici indicazioni coreografiche in registrazioni audio. I due corpi che si confrontano con una resistenza/ostacolo, riconoscibile cifra della Bianchi, agiscono a stretto contatto con il pavimento, in movimenti che sperimentano articolazioni e disarticolazioni di ogni parte del corpo fino a dita contratte in maniera diversa una dall’altra.
Anche Daniele Ninnarello sembra gridare “staying with the trouble”, nel suo “Nobody, nobody, nobody. It’s ok not to be ok”, che si annuncia come una protesta e una denuncia ma che lo espone privo di forze in una fragilità che ci lascia senza fiato, quando è steso a terra con le mutande abbassate, quando articola la bocca senza riuscire a proferire parola o quando si copre il volto o la testa come per proteggersi alla violenza della strada. Ed anche lui cerca la comunità, chiede adesione al pubblico chiamando uno ad uno per nome e cognome, poi la visione è ancora dal basso, “più vicino ai marciapiedi dove è vero quel che vedi”. Qui con Loredana Bertè i movimenti del danzatore diventano rapidissimi e forse solo dopo il consenso del pubblico la sua protesta diventa più efficace ed il ritmo è travolgente.
L’Autobiografia di Giovanna Velardi o ancor meglio, come sottolinea il cartello, “Ceci n’est pas une/mon autobiographie”, ci fa toccare con mano le ferite di una donna che non dimentica e che anche essa cerca nuove connessioni partendo da quel trouble che ritorna. Con grande ironia la Velardi alterna momenti di grande intimità e dolore a nuove connessioni con il futuro. Parla in siciliano e ricordando degli interni familiari cita il terremoto del 75 come le stragi mafiose, come ci annuncia con Magritte che questa non è un’autobiografia, così ci dice che quel momento è uguale uguale ad un film di Ciprì e Maresco. Tanto è divertente sentirle dire chi non ha un pupo in Sicilia, tanto ci fa empatizzare con la donna fragile la sua paura per gli spazi grandi. In danza Giovanna fa rivivere Gelsomina ed è poesia pura quando mima il pianoforte che poi diventa elettronica. Parla in francese in scena ricordando un via vai tra Avignone e Marsiglia, di un uomo trop beau (beddo per non dimenticare la sicilianità) che la abbandona al primo appuntamento.
Ogni spettacolo aderisce alla vision della direzione artistica ed organizzativa che immagina nuovi pubblici e nuove esperienze condivise, come il bel video documentario di Clemente Tafuri e David Beronio che qui ha la funzione di approfondire il lavoro di un’artista interessante come Paola Bianchi e metterne a nudo arte e intimità. Un altro materiale importante per dare nuove chiavi di lettura anche ai tanti giovani accorsi. Ed in questo manuale di sopravvivenza Tendance non poteva che decidere di procedere con rabbia e con amore.

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