Scrivere la Danza 2022

L'edizione 2022 del festival Tendance ha ospitato la quinta edizione del progetto Scrivere la danza, questa volta mettendo a confronto la scrittrice Melissa Panarello e la critica Mariateresa Surianello, alle prese con Re-play di Giselda Ranieri e lo scrittore Matteo Trevisani e la studiosa e critica Valeria Vannucci - che ha sostituito in corsa Letizia Bernazza, assente per più che giustificati motivi di salute – che si sono misurati sullo spettacolo Jupiter+Jaguar della compagnia spagnola Eyas Dance Project di Carlos González e Seth Buckley.
E anche in questa edizione si sono confermate in buona parte le caratteristiche che avevamo già evidenziato nelle precedenti edizioni: una visione più “oggettiva” da parte della scrittura specialistica e una più “personale”, da parte della scrittura creativa, come è d'altronde ovvio.
Ma si è conservata anche una già sperimentata differenza di genere: nel caso in cui lo sguardo della scrittura creativa sia uno sguardo al femminile e nel caso in cui in scena ci sia una o più danzatrici, si stabilisce quasi inevitabilmente un processo di identificazione, in particolare di identificazione tra il corpo di chi guarda e quello di chi agisce. Mentre se lo sguardo di chi guarda è maschile, quello che si innesca è un processo che porta ad una sorta di racconto di viaggio interiore che lo scrivente intraprende seguendo lo spettacolo. Quindi un processo che non passa tanto dal corpo quanto dalla mente e dalla sua capacità immaginativa.

Danila Blasi

Come si fa a “scrivere la danza”? Raccontando quello che si vede come una storia, come un quadro? O analizzando i percorsi che precedono il gesto, le ascendenze, il virtuosismo fisico, l’immaginario e le sue mille derivazioni. Ovviamente non c’è un metodo esclusivo e ogni elemento è altrettanto valido, ma il “gioco” che abbiamo inagurato qualche anno fa con Danila Blasi – l’invito a uno scrittore/scrittrice e a un critico/a di guardare lo stesso spettacolo e raccontarlo, ognuno con il proprio linguaggio – parte da questa costatazione: da un “oggetto” spettacolare possono sprigionarsi mondi (interpretativi) diversi. E anche quest’anno questa dinamica si è rinnovata, confermando la tendenza degli scrittori a trasformare la visione dello spettacolo nel racconto di un’esperienza personale e quella dei giornalisti e studiosi ad indagare le implicazioni storiche e sociologiche, legate alla disciplina della danza e al suo valore politico.
Per rendere il “gioco” più concreto, anche questa volta, ci siamo avvalsi di un software che analizza i testi (un progetto sviluppato dall’Università la Sapienza sotto la supervisione di Tullio De Mauro a partire dalla fine degli anni Ottanta). Fermo restando che la “leggibilità” dei testi viene valutata secondo criteri come l’assenza di termini specialistici – cosa che rende i testi più settoriali automaticamente valutati come “meno leggibili” – ancora una volta sono gli scrittori e scrittrici – Melissa Panarello e Matteo Trevisani – a proporre testi più aperti, accessibili, comprensibili da chi non è del settore. Ovviamente, per quanto riguarda i testi di Maria Teresa Surianello, giornalista, e di Valeria Vannucci, studiosa (che sostituiva una Letizia Bernazza che non è potuta intervenire per motivi di salute), non vanno intesi come “non leggibili” – hanno anzi un loro importante grado di leggibilità! – ma come indirizzati a una diversa platea di lettori. E con diverse specificità che andremo ora a raccontare.
Melissa Panarello ha raccontato “Re-play” di Giselda Ranieri cercando di mettere in luce la dimensione del corpo femminile. La danzatrice esplorava – anche con una vena di ironia – quella che è una dimensione altalenante dell’umore, pur riconducendola ad un gioco di sdoppiamenti di immagine realizzato attraverso dei laptop. La scrittrice ha voluto restituire la traccia più “vulcanica”, rovente, del lavoro, come una lunga riflessione che attraversa sindromi premestruali ed esposizione dell’intimità (lo spettacolo come dimensione onnivora della nostra realtà). E lo fa con una riflessione coinvolgente, dove ogni elemento contingente viene esplulso o relegato alla fine (il titolo dell’opera, ad esempio, è citato solo sul finale). Di segno opposto lo scritto di Maria Teresa Surianello, che vanta una lunga carriera giornalistica e che inserisce da subito nel suo articolo tutti i riferimenti dello spettacolo, le cinque “w”: chi, dove, quando, eccetera. L’articolo di Surianello è meno empatico e più analitico, ma non per questo evita di affondare le mani nella materia dello spettcolo. Ne racconta la genealogia (citando la relazione che lega artisticamente Giselda Ranieri a Roberto Castello e al suo immaginario) ma racconta anche il lavoro, soffermandosi sulle soluzioni tecniche e sulla tecnologia che permette la frammentazione. È una considerazione di carattere più sociale, lo sguardo si sposta dall’intimità al device, da ciò che prova il corpo al suo interno alla sua moltiplicazione all’esterno. Lo sguardo, va da sé, si concentra più sullo zeitgeist, sullo spirito del tempo, che è pure un elemento del gioco artistico di “Re-play” fin dal titolo.
Il racconto di “Júpiter + Jaguar” della compagnia spagnola Eyas Dance Project è stato affidato invece a Matteo Trevisani e Valeria Vannucci. Da scrittore, Trevisani, racconta lo spettacolo – molto più classico e geometrico nella costruzione della coreografia del primo – facendo ricorso alla prima persona, tirando in ballo il processo d’analisi stesso, l’occhio che guarda, la mano che impugna una penna e che prende appunti, una serie di parole e concetti che si depositano sulla pagina. C’è racconto ma c’è anche analisi: l’interesse di Trevisani, come scrittore ma anche come studioso, è legata ai miti e questo sguardo sul mondo emerge con forza: lotta, potere, sesso e seduzione (tutti elementi in gioco in una coreografia ferina e vortiosa) sono evocati anche nel loro aspetto simbolico, mentre il titolo dello spettacolo, che evoca due archetipi divini come Giove e il Giaguaro (anche se tratti da due diverse tradizioni antiche, separate da un oceano) sono lo spunto per recuperare la dimensione del “rito”. che in fondo sempre sottende alla rappresentazione teatrale, ed inquadrarla nella sua valenza “cosmica”. Eros come forma di conoscenza, bramosia e seduzione, metafora sportiva per parlare di seduzione, ferocia e giocosità animano il testo di Valeria Vannucci, che pure – come già quello di Surianello – contiene al suo interno un paragrafo di informazioni “giornalistiche”, tipico della scrittura più legata alla disciplina, che sente sempre l’obbligo di storiografare ogni commento, ogni restituzione (non mancavano nemmeno nel testo di Trevisani, ma più diluiti nel racconto). È un testo che comincia con una citazione del filosofo tedesco-coreano Byung-Chul Han e che, pur evocando tutti gli elementi per così dire “materici” della coreografia, li organizza in un orizzonte di senso di carattere più smaccatamente teorico. Non distante in questo dal testo di Trevisani, si orienta però verso una riorganizzazione di tipo analitico, più che mitico, affidandosi alla razionalità più che alla simbologia.
Una nota conclusiva significativa e per certi versi “divertente”: l’organizzazione dei paragrafi tra chi scrive come narratore e chi lo fa nell’ambito del giornalismo specialistico è opposta. Gli scrittori partono da un incipit evocativo, facile da leggere, e cercano di stratificare l’immagine che evocano via via; le due giornaliste-studiose fanno l’opporto, partendo da incipit di grande intensità che vengono sciolti nel testo che diventa via via più esplicativo, alle volte con una chiusura per così dire “ad effetto”. Un approccio speculare invertito, che dà conto, più di mille parole, di quali lettori vengono immaginai dai/dalle quattro scriventi.

Graziano Graziani

Su Re-Play

di Melissa Panarello

Com’è camminare sui vetri rotti e non farsi male? Basti pensarli piume. O petali. Cotone idrofilo imbevuto di latte detergente. Siete entrati a casa di questa donna, e ora siete obbligati a guardare il suo spettacolo. Lo spettacolo di me, che nemmeno mi serve stare nuda per mostrarvi chi sono.

Ho tutto il di dentro diviso a blocchi di colore perché ogni blocco è una scatola dove io tengo i ricordi. È il mio corpo che sa chi sono, perché ricorda dove sono nata e come sono diventata e cosa ha dovuto attraversare, lui stesso, per prendere la forma di me.

Ecco dunque che il mio corpo è me.

Vi sentite in imbarazzo, non è vero? Non dovreste. Dopotutto, non siete qui per guardare? E pure se aprite la pagina che ha la mia faccia e il mio nome: non state forse ricordando anche voi, chi sono io?

È tutto qui, pure, se volete: in queste due scatole che al contrario di quelle del di dentro non hanno colore. Sono le scatole del di fuori. Dentro c’è l’innominabile perché, alcune cose, io tendo a non volerle ricordare.

Per esempio, quando esisto per compiacere gli altri. Per esempio, quando esisto per toccare il fondo della disperazione. O quando non esisto, ed è la mia pancia a dire: sei questo, sei quello.

Venite qui a guardare lo spettacolo di una donna in sindrome premestruale. Che hai le tue cose? Sì. E sono oscene. Volete vedere cosa si prova a essere ferro e a essere piuma? Dotatevi di un utero e sarà lui, per almeno metà del mese, a decidere per voi. Tante scatole: la mia faccia, che dice una cosa; poi il mio corpo, che ne dice un’altra. La scatola delle mie mani, quella dei miei piedi. La scatola del mio cuore, della mia pancia e della mia fica. Sono una donna scomposta e per ricompormi non serve montarmi, basta vedermi. Pezzi di me sono sparsi ovunque, horcrux a testimonianza del mio esserci stata. Divento così un punto lontano nel tempo, ma non nello spazio. Puoi sempre riconoscermi, a un palmo dal tuo naso, ma non puoi sapere da quali secoli arrivo.

Più distanza mettiamo fra di noi, più io sono libera di farvi vedere chi sono. Ma se vi avvicinate sono uno schermo nero e taccio.

Com’è camminare sui vetri rotti e non farsi male?

Sono così leggera che non mi accorgo di essere pesante. Quando penso, non so di pensare. Quando sento, sposto il sentire nel pensiero. Spostare le scatole, è questo che mi tiene impegnata tutto il giorno e più sposto e più perdo il contatto con me stessa. Ma se invece tenessi tutto in ordine, io che ci starei fare qui? E voi, che cosa sareste chiamati a guardare se nulla dentro o fuori di me si muovesse? Di che spettacolo sarei protagonista, di che spettacolo sareste spettatori?

Su Re-Play. Puoi giocare così tante volte che alla fine non è più un gioco. Nessuno può fisicamente sostenere reggere a lungo l’illusione della gioia, a un certo punto sono necessari i crolli, ed è necessario spostare, ed è necessario svanire. La luna brilla di più perché intorno ha la notte.

Su Re-Play

di Mariateresa Surianello

Una propensione incessante e delicata verso il fuori del proprio essere corporeo segna Re-Play di Giselda Ranieri, danzatrice-coreografa attiva in solitudine autorale, ma apprezzata anche nell’organico di Aldes con le partiture di Roberto Castello.

Nel tentativo di afferrare un’irraggiungibile condizione mentale, più che fisica, Ranieri come primo atto di questo solo gioca con la sua mimica facciale, davanti alla telecamera di un piccolo lap top, innescando subito il rimbalzo tra la sua presenza sul palco e l’immagine riprodotta con la complicità del dispositivo di ripresa. Si colloca di spalle agli spettatori che vedono il suo volto rimbalzare dal piccolo monitor al fondale, dove sorrisi, smorfie, incertezze, stralunamenti ne alterano i connotati, mentre lo sguardo ingigantito e interlocutorio cerca. E trova l’altro lap top. Nella scena vuota, due leggii sono posti asimmetrici ai lati, trespoli ospitanti i due complici dell’azione, i computerini portatili, appunto, che vengono manipolati dalla danzatrice come fossero buchi nel suo corpo, rigurgiti di memorie o vere e proprie protesi sostitutive pezzi di quel suo corpo.

Come in un fluido accogliente – che sia quello materno amniotico o di una bolla acquosa e trasparente - la danzatrice inizia a cercare anche il movimento, dapprima minimo, trattenuto, quasi quotidiano per protendersi poi più lontano. Un braccio, una gamba, le dita dei piedi cercano un respiro fuori dal centro, ponendosi in un disequilibrio controllato e mai eccessivo fino alla caduta, con ironica ostentazione di una serenità che appare come una sfida. Che ci sia dell’acqua è il pesce rosso a confermarlo con le sue apparizioni virtuali, rimbalzando anch’esso nella triangolazione dell’impianto scenico, dai due lap top al fondale. Mentre lievi e ripetitive sonorità elettroniche cullano la ricerca di questa dimensione agognata, onirica e di incantamento. Ricerca agita con un’energia trattenuta, gioiosa e interiore, pur in questo suo protendere del movimento-gesto, in netta opposizione al furore strabordante di Mbira, il lavoro di Castello che vede protagonista Rinaldi in coppia con Ilenia Romano.

Quando nel pezzo irrompe la parola, la lingua forse non a caso è l’inglese, lingua franca del nostro presente tecnologico con cui l’autrice sceglie di spiegare il meccanismo di distanziamento e la funzione del guardarsi dall’esterno generato dai nostri device. Per tornare all’italiano nel momento forse più suggestivo dello spettacolo, quando con il lap top aperto poggiato sulla nuca sembra evocare una sorta di Giano Bifronte, forse auspicio per un inizio del suo viaggio di ricomposizione della dualità dentro/fuori. Ma i tentativi di usare le parole si infrangono rovinosamente nella difficoltà sintattica di costruire frasi compiute, come le foto sfocate che compaiono sul fondo non aggiungono, né chiariscono niente. Sono dimensioni parallele. E alla fine Giselda Rinaldi si raddoppia, con la proiezione sul fondale della sequenza coreografica che sta eseguendo dal vivo. Ma era forse una prova di questo pezzo, la documentazione del percorso. Un brandello di memoria. Di frammenti del nostro quotidiano ne sono colmi i nostri device.

Su Júpiter + Jaguar

di Matteo Trevisani

È difficile chiedersi cosa si sta vivendo, mentre lo si sta vivendo. Se è vero che per pensare servono le parole – e ciò che quindi il pensiero è essenzialmente una forma descrittiva di ciò che si muove – una loro assenza implica uno stravolgimento cognitivo. È la santità degli innocenti, di quelli che ancora non sanno.

Mentre guardavo lo spettacolo Júpiter + Jaguar, della compagnia spagnola Eyas Dance Project prendevo appunti, cercavo di fissare sulla carta le impressioni, gli stati di cambiamento emotivi che quello che vedevo mi stava provocando, un mutamento, qualcosa che viene trasportato in un luogo che prima era vuoto e adesso è pieno. Pensavo che in Cina, su questa storia del mutamento, ci hanno tirato su un’intera cultura, come l’Egitto con la morte. Sul quaderno ho scritto: quadrato aperto dal un lato, ronzio, radiazione cosmica di fondo, giallo, sorridi o mostri i denti, cavalcare, il mondo e il sonno, disegni, ho tenuto qualcosa, per ogni x, rintocchi in numero di sette, chi comanda?, la volontà che sta sotto, il disegno di un elettrone col suo nucleo, anelli, non si bastano.

Ero di fronte dunque a che cosa, ma esattamente a cosa? C’era una storia dietro quei due corpi? Un uomo e una donna che si danzano attorno, lei sembra sempre in una situazione di superiorità, come se lui fosse costretto a seguirne gli sconvolgimenti interiori. Una fisicità tutta plastica, la tensione e il sudore. Dunque era un gioco sensuale, ibrido e tropicale? Un esempio del sesso, e quindi della relazione che c’è nello specchiamento? Sto esagerando. Eppure la danza all’inizio sembra davvero una lotta, e la lotta rimanda al potere e il potere rimanda al sesso. Perfino nelle parti in sincrono si intravede una gerarchia di fondo, ecco, c’è sempre una risposta alle esigenze, ai turbamenti dell’altro. Eppure i danzatori anche giocano, si divertono, sanno di essere di fronte a una reciprocità. Mi pareva di poter permettermi di pensare che la forma fosse compiuta abbastanza da lasciare loro di esperire un qualche tipo di libertà più selvatica. Mordono, sono eccitati, i volti a volte si contorcono in espressioni che alludono all’orgasmo o al ferimento, al sangue, alla morte. Dunque mi bastava, stavo assistendo a me stesso che assisteva al rapporto conflittuale di due corpi, con tutto quello che questo comporta, con i suoi momenti di rabbia, egoistici e con quelli comuni, come un’esperienza che si possa definire davvero portata a termine solo se fatta insieme. Bene. Poi dal teatro interiore in cui assistevo a me che guardavo è venuto fuori un lampo, un ricordo. Ho pensato al nome dello spettacolo. Júpiter + Jaguar. Paula e Seth. Allora qualcosa di più simbolico si è aperto in me, e quello che ho avuto davanti era sì un amplesso cosmico, rituale nelle allusioni e sostanziale nei corpi, ma era anche una storia che potevo permettermi di conoscere meglio. Che forse già conoscevo. Forse è vero che passiamo tutta la vita solo a ricordare. Allora ho pensato che era lei che cavalcava, lei doveva essere Giove e lui il giaguaro, e sono precipitate in me le seduzioni della cultura e le verità della natura, e ho cominciato a percepire una storia diversa, un addomesticamento, ecco, qualcosa di umano come la strutturazione simbolica di una realtà divina, e un animale selvaggio, e cosa può accadere quando due mondi diversi vengono, a un certo punto, fatti coincidere. La storia dell’umanità e di quello che ha creato a discapito di una purezza ancestrale. Mi è tornata in mente la voce di Caruso nella foresta amazzonica. Allora ha avuto un senso l’eccitazione di lei, e la pulizia delle sue forme e i sorrisi, e anche la fisicità di lui, un corpo massiccio eppure fluido, impiegato in modo diverso, tumultuoso eppure saggio. Ho assistito forse a una colonizzazione progressiva? All’esercizio di un potere qualsiasi? Giove cavalca il giaguaro due volte, la prima tiene i piedi nell’incavo della sue ginocchia, la seconda alla occidentale, mima l’utilizzo di qualche strumento, riceve in dono qualcosa. È la compenetrazione, ecco. Lo sconsiderato adattarsi, provare a rendere omogenei aspetti della realtà, la natura e la cultura, che torneranno a separarsi come l’acqua con l’olio. Ho pensato alla giungla. Anche un giaguaro ha una cultura. Anche una divinità ha una natura. Due danzatori che esibiscono la tensione erotica di una relazione – con le sue tenerezze, le sue protervie e le sue cattiverie – me lo hanno ricordato.

Attraverso l’evidenza del sotto: Júpiter + Jaguar al festival Tendance

di Valeria Vannucci

«L’Altro, che io desidero e che mi affascina, è senza luogo. Si sottrae al linguaggio dell’Uguale», nella sua opera Eros in agonia il filosofo sudcoreano Byung-Chul Han analizza la valenza e la funzione dell’eros nella società contemporanea.

L’uomo, anestetizzato dall’ambiente in cui vive e incapace di riconoscere l’altro come diverso da sé, non sarebbe più in grado di accedere ad alcun tipo di processo di conoscenza antropologica, possibile solamente immergendosi nell’alterità. Avanzando l’ipotesi che l’eros coincida con tale alterità, Han contrappone alla dilagante positività del mondo e della mente contemporanea quella che lui definisce “negatività” della conoscenza, forma di sottrazione fino all’essenza delle cose, in cui si troverebbe l’eros.

L’incontro con l’altro è dunque l’unico mezzo per accedere alla conoscenza, messa in moto dall’eros come forma attrattiva e seducente, ovvero diversa e inclassificabile.

Allora se due corpi si incontrano accade qualcosa, un accidentale perimetro di tensione in cui il trovarsi può anche diventare scoperta, esplodere in scintilla, capovolgersi in scontro, sciogliersi nel desiderio. E ancora, ritornare incontro. C’è qualcosa di ferino nella dimensione di quest’incrocio di sguardi che vogliono scrutarsi, la cui curiosità può ribaltarsi in un secondo in lotta, nel mostrarsi a vicenda, cedendo e recuperando terreno sulla soglia dell’altro. Baudelaire scriveva: «Non si è mai troppo vecchi finché si desidera sedurre e, soprattutto, finché si desidera essere sedotti», fra questi due punti si muove il lavoro della compagnia Eyas Dance Project, che il 4 giugno 2022 nell’ambito della XII edizione di Tendance – festival di danza contemporanea ha messo in scena Júpiter + Jaguar negli spazi espositivi del MADXI Museo Contemporaneo di Latina. La coreografia costruita dalla compagnia spagnola, firmata da Carlos Gonzàlez e Seth Buckley, vede in scena quest’ultimo assiema alla danzatrice Paula Montoya in una sorta di rituale di seduzione che vuole incorporare il rapporto dialettico che intercorre tra ferocia, sensualità e giocosità, sempre a partire dalla scoperta e dall’incontro dell’altro sulla scena. Come in un ring i corpi dei performer si attendono con bramosia, pulsando nella tensione della loro vicinanza oppure facendosi ammirare nella distanza del pavoneggiarsi, unendosi inoltre in momenti di unisono dal sapore piuttosto accademico e mantenendo una declinazione lirica soprattutto per quel che riguarda l’interpretazione del ruolo maschile. Il gioco di sguardi non esclude il pubblico dal meccanismo di seduzione, colto nella sua dimensione altra e studiato a fondo dalla vena seduttiva dei due corpi in scena. D’altro canto, l’operazione adottata dalla Eyas Dance Project pone sulla scena uno sguardo che rimane inevitabilmente in superficie, non riuscendo ad approdare nella profondità del sensuale altrui attraverso quel meccanismo sottile di cui le parole di Han manifestavano la possibile potenza. Un disordine ordinato e contraddittorio, quello dell’eros, che può rivelare l’essere nella sua forza e nella sua debolezza solamente a partire da una ricerca profonda della vicinanza anche paradossale tra ferocia, sensualità e gioco.