In questa ultima edizione di TenDance abbiamo ospitato la seconda edizione di “Scrivere la danza”, un progetto che chiama tre scrittori, digiuni di danza, a vedere tre spettacoli e raccontarli con il loro linguaggio, per poi mettere i risultati a confronto con la lingua della critica specialistica durante un incontro pubblico.
Intro alla seconda edizione di “Scrivere la danza” (uno sguardo volutamente di genere...) di Danila Blasi
L'obiettivo è quello di capire se i linguaggi si possono ibridare per rendere il racconto della danza accessibile anche a chi non ne conosce ancora i linguaggi, senza per questo perdere di intensità.
La scelta degli spettacoli è affidata agli scrittori, che non potendo scegliere per diretta conoscenza del coreografo, si affidano al titolo o alla sinossi o all'immagine dello spettacolo.
Il caso ha voluto che quest'anno due scrittrici, donne, Gaja Cenciarelli e Carmen Pellegrino, rispettivamente accoppiate con Simone Nebbia e Roberto Giambrone, scegliessero due lavori che vedevano in scena danzatrici, donne.
Per la coppia Cenciarelli/Nebbia si trattava di “Yes, of course it hurts” di Spellbound, un lavoro che vede in scena cinque danzatrici coreografate da Mauro Astolfi.
Pellegrino e Giambrone hanno invece visto scritto di “Mutamenti” di Isabella Giustina, coreografa ed inteprete del pezzo.
Mentre Orso Tosco, in coppia con Enrico Pastore ha visto e commentato “Lunatico” di e con Massimiliano Balduzzi.
Nell'analizzare i loro testi, al di là delle distanze e delle vicinanze, evidenti nella scelta dei termini, nell'utilizzo delle parole, la cosa che più mi è saltata all'occhio è stato il punto di vista.
Come era ovvio quello degli scrittori era, e non poteva essere altrimenti, un punto di vista squisitamente personale,
Ma con una differenza sostanziale. Orso Tosco, da scrittore bisognoso di narrazione, inventa una storia, descrive una vita per quel bizzarro personaggio che Balduzzi mette in scena. Ma come i tre critici mantiene una distanza emotiva. Quel personaggio non è lui, non gli assomiglia. Nessuna catarsi insomma.
Al contrario Cenciarelli e Pellegrino, in un processo totalmente empatico si identificano con le danzatrici, ci parlano, le chiamano, riconoscono comuni dolori e comuni gioie. “Da donna a donna” scrive Pellegrino. “Per tutte arriva il momento di aggrapparsi a un’altra donna per salvarsi” scrive Cenciarelli.
Punti di vista diversi, punti di vista legati al genere? Forse...
Qui sotto trovate i sei articoli e l'analisi che ne ha fatto Graziano Graziani partendo dalle parole usate.
Buona lettura
Spellbound - “Yes of course it hurts”
di Gaja Cenciarelli
Il buio, il silenzio, una donna all’angolo. Sì, certo, fa male. E tuttavia, la donna si stacca dalla quinta e inizia a muoversi nello spazio, inizia finalmente a occuparlo, quello spazio.
Il buio, il silenzio, una donna all’angolo. Sì, certo, fa male. E tuttavia, la donna si stacca dalla quinta e inizia a muoversi nello spazio, inizia finalmente a occuparlo, quello spazio. Agisce il suo potere fisico con movimenti meccanici, ma l’incantamento è proprio in questo sublime architettare - nel senso etimologico del termine - la fluidità dei gesti nella meccanica di un ingranaggio. Da una, le donne, diventano presto tre, poi cinque che si trasformano un corpo solo. Si intrecciano, scalciano, si allontanano, si respingono, si sostengono, si escludono, si condannano, si paralizzano, restano a terra inermi, si rialzano, si guardano rialzarsi. È nell’intreccio dei corpi il cuore della storia, così come accade per la scrittura, dove la verità è nella combinazione tra le parole. In uno spazio vuoto, scuro si sentono solo i respiri delle danzatrici, i passi che scivolano sul palcoscenico, l’attrito dei corpi. Le espressioni delle danzatrici sono una creazione a parte. La potenza della loro fisicità è pari alla loro mimica, non di rado animalesca. Parlano di istinti, i loro gesti, di rivendicazioni, di prese di posizione. Anche quando sono ferme, o distese, sono vive, respirano, pensano alla mossa successiva, al passo successivo. La distanza tra il palco e gli sguardi del pubblico è quasi nulla, non ci vuole molto a sentirsi chiamate in causa, a sentirsi accendere dall’intensità di quegli occhi e dallo slancio delle braccia - pare di sentire gli scatti delle giunture, ma non è così, è solo la memoria muscolare della fatica delle donne. È il pensiero e l’anima che si fanno corpo, protesta, sofferenza. Siamo noi a danzare, tutte. Ci sono secoli, millenni di storia, ad animare questo incantamento animale. I passi sono duri, scalfiscono il palco, ma al contempo sono lievi, non lasciano traccia, come se le danzatrici volessero imporre la propria presenza, come un paradigma, o come uno slogan che avvisa: con vigore ma non con crudeltà. La conquista dello spazio è una lotta che assume in sé, a giudicare dai movimenti delle danzatrici, il senso di un ossimoro: esseri umani che hanno le movenze dei manichini, ma che non sono mai senz’anima, tant’è che lo spezzettamento dei gesti in unità minime di piccoli scatti quasi non si percepisce, tanto è fluido. Una morbida durezza. Una dolcezza violenta. Come se tanta determinazione nascondesse un’insicurezza atavica. Sono donne forti che si guardano in faccia, quasi sempre serie, contratte, a volte torve, spesso spietate. C’è chi si scrolla di dosso le altre, chi tenta di usarle come scalino, vengono lasciate sole ma poi tornano a unirsi, a intersecarsi, a infilare il proprio destino l’una nel corpo altrui. La danzatrici si impadroniscono del vuoto e lo riempiono della presenza di una creatura che non è più una sola donna, bensì una sorta di aliena a cinque teste, dieci braccia, dieci gambe. La difficoltà di appoggiarsi l’una all’altra, la voglia di essere salvate, il desiderio di essere accettate: tutte necessità primigenie della donna espresse con la precisione chirurgica di un robot, eppure morbide, com’è morbido il corpo umano. Sì, certo, fa male muoversi, rifiutare l’immobilismo, essere ferite, essere fraintese, essere tradite. Sì, certo, fa male pensare che il peggior nemico di noi donne sono le altre donne, ma per tutte arriva il momento di contare sulle altre, per tutte arriva il momento di aggrapparsi a un’altra donna per salvarsi, ed è questo l’incantamento: il dolore rischia di annichilire l’anima, ma le braccia delle donne sono forti, le spalle delle donne sono resistenti, le gambe delle donne sono determinate e, quando scelgono di staccarsi dall’angolo, lasciandosi dietro i conflitti, le rivalità, la mercificazione, la svendita di se stesse, conquistano la scena.
di Simone Nebbia
Solo il dolore, per paradosso, esprime con chiarezza ineludibile il corpo vivo, nel punto esatto in cui qualcosa muore. Yes, of course it hurts, della Compagnia Spellbound, si muove lungo un crinale di specificità linguistica, interpretando la danza come vera e propria scrittura con il corpo e sul corpo.
Il carattere di una sofferenza prima privata, poi estesa, timidamente schiusa alla compresenza e la comprensione altrui, si mescola alla raffinatezza del movimento, veicolato da una ritmica sinuosa e tuttavia arricchita di continui cambiamenti verso l’accelerazione improvvisa o il rallentamento cadenzato. È una poesia, di Karin Boye, che attraverso il titolo pilota nel senso ultimo delle parole, senza che di parole vi sia più alcuna traccia; Mauro Astolfi, autore della coreografia, dispone i corpi delle cinque sorprendenti danzatrici (Maria Cossu, Aurora Stretti, Giuliana Mele, Caterina Politi, Alice Colombo) in una dimensione che dall’individuale si espande fino a dirsi collettiva, arricchita da movimento ora di tensione ora di liberazione, in tutto però capace di comporre una cellula solidale di accoglienza che affronti la paura, per poi di nuovo, attraverso un raccoglimento intimo, rinnovare la singolarità dell’esperienza di dolore ma in una nuova qualità di resistenza. L’occupazione dello spazio si dispone in una sequenza di sculture corporee che manifestano continuità tra l’aspetto plastico, esteriore e performativo, e l’aspetto più squisitamente espressivo, di natura e origine intima, forse primitiva, di certo pre-verbale. La conservazione dello spirito più recondito dei corpi, che mai si respingono ma cercano istintivamente una misura comune alla presenza, passa attraverso uno degli elementi più evidenziati dalla coreografia – e che più sembra centrato: una sviluppata sensualità, come se la sofferenza – nelle idee di Astolfi – non possa impedire al corpo di mostrare la sua bellezza e anzi, più ancora, sappia interpretare quella bellezza forse nella forma più vasta della caducità, del possibile sfiorire. Ma è dal punto di vista tecnico che la breve performance si fa più persuasiva, poiché le danzatrici sembrano aver trovato una quadratura millimetrica tra la velocità e la precisione, o più ancora tra la fluidità e una trattenuta stasi muscolare che ritiene e poi libera il movimento, così che le forme più lontane tra loro, gli opposti che dell’animo umano sono gli angoli più oscuri, possano intersecarsi e tenere in un solo atto di vitalità il dialogo ondoso tra rimedio e rassegnazione, attraverso il quale l’uomo sa trasformare il dolore in energia perché la paura della solitudine non impedisca una rinnovata vocazione alla vita.
Isabella Giustina - “Mutamenti”
di Carmen Pellegrino
Il corpo: spazio aperto, campo di battaglia.
È in corso una collisione tra gli eventi e il linguaggio.
Non c’è ragione, dicono, per cui la lingua non possa rendere la realtà, anche quella combinata in un corpo.
Ma veramente è così?
Proviamo.
Dico:
Corpo parapetto di trincea.
Corpo abitato.
Mutato.
Conteso.
È il corpo preteso.
Offeso.
Ingabbiato
Il corpo in esilio.
Coperto.
Scoperto.
Il corpo convenzionato.
Il corpo della mutua, della convenzione.
Il corpo che non si arrende.
Il corpo sperimentale.
Del decreto
Il corpo dell’ingiustizia.
Della legge che ora vede, ora prevede, ora non vede, ora si trincera di generalità e astrattezza.
Il corpo in mare.
Il corpo ammassato.
Annegato
Frugato.
Il corpo di colpo invecchiato.
Il corpo morto.
Oppure il corpo che accusa il colpo.
Il corpo che prima o poi chiede il conto.
Corpo a sorreggere.
A farmi stare.
Il corpo che è più vicino all’inconscio di quanto lo sia la coscienza
Spesso l’inconscio lo chiamano destino.
Il discontrollo.
Oppure l’armonia.
Storia delle mie sensazioni.
Delle mie paure.
Percettologia.
Bene. Ora che ho detto tutto, che cosa ho detto?
Può essere raccontato un corpo straziato?
Qui si tratta di gentilezza.
Bisogna avere riguardo.
Cercare il luogo oscuro. Non giudicare.
La via della guarigione non è nel dominio di Babele, del sintagma verbale, delle frasi copulari, delle costruzioni focalizzate.
Nelle scienze empiriche qualcosa esiste se gioca un ruolo in una spiegazione. Ma come lo descrivi il corpo rimasto bloccato nel dolore?
Dillo, dicono, hai le parole.
Ma davvero che se dico albero l’albero è albero? E se dico nuit richiamo l’oscurità? Al contrario, se io ora dico nuit mi coglie un guizzo semantico che mi fa luce.
E allora il corpo dei conflitti, messo in scena.
Quello di Isabella.
La danzatrice accede alla bambina esiliata, depositaria dell’umiliazione, della confusione, della vergogna.
La danzatrice fa un passo indietro e ascolta, finalmente ascolta ciò che la bambina voleva che lei sapesse
La bambina inaccettabile non è più sola nella sua tristezza.
In principio era un corpo curvo rigido ferito indurito, ora è di nuovo vivo, flessibile pieghevole elastico agile morbido sciolto sinuoso
La danzatrice assoluta. La danzatrice sciolta che si scioglie i capelli, si libera del caos continuo della mente, dalla concrezione che complica le sue difficoltà; forse che i nostri corpi possono là dove la mente si chiude furtiva in attesa di un giorno che non è ancora, o non è più?
Quanto non sopportiamo sudore sporco cattivo odore, è per una specie di super io culturale.
La danzatrice invece suda, non si trattiene più, non neutralizza sensazioni corporee indesiderate, non è più allo stordimento di sé stessa. Si consuma sul palco, non è una rappresentazione, è una presentificazione
e dirotta me insieme a lei.
Nella Gestalt di una sera danzante, io e lei non ci lamentiamo più da donna sola a donna sola, ora ci liberiamo di certi pensieri, della tossicità ereditaria come l’anemia.
O danzatrice, ti ricordi il gioco di Lacan sull'assonanza tra encore (ancora) e en-corps?
Ora qui con me c’è una bambina, quella che sono stata e che avevo rifiutato. Questa bambina ha avuto una giornata pesante, è scombuita e lo deve a te!
O bimba, ti osservo ti scruto per cogliere di te quello che anche tu non sai, per capire quello che è , l'essenza o la sua impronta.
E poi ancora osservare la tenerezza del tuo corpo così indifeso e curarlo con uno sguardo.
Non sei più sola. Ci sono io che mi prenderò cura di te. Non avere paura, non sei più sola.
E aspettare che la stanchezza venga.
E poi vedere il confine tra l'essere e il non essere del sonno...quello stato crepuscolare dove si sente poco e pure si sente quello che in coscienza rimane coperto.
Il tuo corpo, o bimba che sono stata, io canto.
Il tuo corpo che appartiene solo a me e che custodisco nelle latébre del mio spirito.
La mia pietà, devo usarti pietà, nel portarlo alla veglia al mattino e ai dolori della coscienza.
Il corpo che è tutto il perimetro della nostra anima e la ragione autentica del nostro ragionare, io canto.
Il corpo che mi ricongiunge alla verità più immediata ma anche più difficile da sondare perché è un confine invalicabile, impenetrabile se non in quei pochi canali che l'istinto solca.
Il corpo è l'estrema Thule, è il vespro, il nostro riparo dalla realtà così imprevedibile e astrusa.
Il corpo canto e la sintesi che opera fra identità che gioiscono e chiedono pietà per il poco che possono darsi, quel poco che non sia empio, quel poco che lo aiuti a mantenere quel briciolo - calia di verità che gli faccia da ancora al nulla.
di Roberto Giambrone
“La vita è un incessante, perenne mutamento”, sostiene la giovane danzatrice e coreografa Isabella Giustina, che al tema ha dedicato l’assolo Mutamenti, vincitore del Premio Tendance 2018.
Niente, meglio della danza, sembra voler dimostrare Giustina, può restituire il senso di questa metamorfosi continua, della quale è difficile cogliere tutte le sfumature, le luci e le ombre, se non per allusioni ed empatie. Come la danza, la vita è alternanza di sospensione e movimento, di contrazioni e rilasciamenti (contraction-release), di aperture e chiusure, di cadute e riprese (fall- recovery). Mutamenti, che segue questo filo tortuoso – a volte nitido e rassicurante, a volte enigmatico e sofferto – è un diario intimo, lo specchio di un’anima inquieta, che si schiude alla vita come un bozzolo e si concede allo sguardo altrui con pudore e timore, ma anche con una certa soffusa sensualità. In alcuni momenti la danzatrice sembra ispirarsi ai movimenti nervosi e alle forme contorte e spigolose di Mary Wigman, la pioniera della danza espressiva, la cui gestualità sofferta ed esplosiva cercava un dialogo con il grumo oscuro dell’interiorità, a partire da un contatto primordiale col suolo. A sua volta, Giustina sembra interrogare il proprio corpo a partire da un rapporto serrato col terreno e con lo spazio, alla ricerca di emozioni profonde e di una identità da costruire, tra desideri e contraddizioni. Da una posizione rannicchiata, con le gambe piegate e il capo chino, il corpo “esplode” liberando energie in ampie volute di braccia e gambe, in sintonia con una partitura musicale evocativa e un disegno luci che cerca di catturare la plasticità chiaroscurale delle forme. Ogni gesto pretende di raccontare qualcosa pur rimanendo nell’alveo di una composizione astratta, che lascia spazio a interpretazioni diverse, a proiezioni soggettive, secondo un processo simbiotico che abbiamo appreso dalla frequentazione del teatrodanza, qui evocato, oltre che nei gesti e in alcune sequenze di movimento, anche nell’uso espressivo del costume (un’ampia gonna grigia che “danza” insieme al corpo) e perfino dei capelli, sciolti e tirati ai lati alla maniera di Munch. Se c’è un rischio in queste intense pagine di diario, è quello di indugiare troppo nell’autobiografismo a scapito di un’interpretazione e di una visione più ampie del linguaggio coreutico, al di là di una innegabile qualità del movimento e di una notevole presenza scenica.
Massimiliano Balduzzi - “Lunatico”
di Orso Toscoo
Nell’Ottobre del 1974 George Perec trascorre tre giorni di fila dentro un caffè di Place Saint-Sulpice, a Parigi. Ha intenzioni pericolose. Si è messo in testa di voler esaurire il luogo che lo ospita.
Per riuscirci si lancia in un lunghissimo e dettagliatissimo elenco di tutto ciò che lo circonda. Piccioni, passanti, taxi vuoti, vetrine, anonimi dettagli architettonici, gesti casuali, il mutare del clima, il cambiamento graduale dell’inclinazione delle ombre, l’accensione delle luminarie, gli incontri fortuiti, i momenti di vuoto apparente. Inutile scavare, inutile rifugiarsi nella psicologia. La superficie è infinita e, senza prima essere riusciti a comprendere il suo alfabeto, è inutile spingersi in profondità. Bisogna prima “far esplodere il sistema a furia di precisione”, soltanto dopo, si potrà tentare un’esplorazione ulteriore. Nel solco di questa tradizione agisce “Lunatico” di Massimiliano Balduzzi. Ma, più di quarant’anni dopo l’esperimento di Perece, molte cose sono cambiate. Lo spazio, gli spazi, sono stati esauriti mediante un processo di costante riproduzione. Nessuno ormai abita esclusivamente un luogo solo, ci si trova sempre in più luoghi contemporaneamente. Si è deciso, più o meno consapevolmente, di esaurire la realtà sfuggendo, tentando di sfuggirle. Ciò a cui non si può sfuggire, è il centro della ricerca di Balduzzi: la voce, il linguaggio. Ritroviamo un uomo solo sulla scena. Potrebbe essere tanto un operatore finanziario, un agente immobiliare. La camicia bianca infilata dentro il pantalone nero fa pensare ad una divisa discreta, adatta ad un mestiere che esige decoro e deplora qualsiasi appariscenza. Eppure, questo lavoratore in pausa, tradisce il mandato conferitogli dall’organizzazione per cui lavora e inizia a roteare, rotea su se stesso e bisbiglia. Due attività già di per sé deplorevoli, in quanto anomale e vistose, e se possibile rese ancora più inaccettabili da un dettaglio che si fa strada mano a mano che la voce aumenta di tono: l’idioma pronunciato dall’uomo sul palco è incomprensibile; peggio, è inventato. Chiunque abbia dato un lavoro a quest’uomo, chiunque si sia fidato di lui, certo che avrebbe sfruttato tutte le proprie capacità per il bene della compagnia, già pregusta la vendetta: il licenziamento immediato, giustificato, sacrosanto. Ma anche queste persone, così desiderose di vendicarsi della fiducia tradita, hanno un ripensamento: e se quest’uomo fosse vittima di un bizzarro caso di burn out? Se si trattasse del primo caso di burn out che trasforma la vittima in una sorta di derviscio demente? Non alla ricerca dell’estasi ma di una via di fuga dall’assalto della realtà che lo circonda? Questo è un dubbio atroce, persino per il dirigente di una grande compagnia. Perché l'efficienza viene prima di tutto, d’accordo, il mercato è altamente competitivo e feroce, questo lo sanno tutti, ma licenziare una persona che ha problemi di salute può comportare dei rischi. In certi casi può infliggere noiose beghe processuali, in genere molto costose. Bisogna quindi agire con saggezza e scaltrezza. C’è la possibilità che quest’uomo stia poco bene. D'altronde chi altri si metterebbe a roteare su stesso pronunciando parole senza senso? Meglio non intervenire, quindi, molto meglio lasciarlo fare. Si stancherà, prima o poi. La smetterà. E a quel punto basterà metterlo in malattia. Un po’ di riposo gli farà bene. E se anche così non fosse, nessuno avrà nulla da ridire. Si è tentato tutto il tentabile, questa la frase che porrà fine a questa spiacevole vicenda. Ma, c’è sempre un ma nelle vicende spiacevoli, quest’uomo non smette. Anzi, quest’uomo cresce, rilancia, si trasforma in molti uomini diversi. Le sue parole forse non hanno un significato etimologico ma assumono comunque un significato emotivo, è il tono a conferirglielo, è il modo in cui vengono pronunciate, è il ritmo, è la gestualità da cui vengono accompagnate. Si inizia a intuire, ed è il tipo di intuizione che fa venire un brivido lungo la schiena del capoufficio, che quest’uomo sta compiendo una vendetta. Questa è la vendetta di un uomo che, dopo essersi reso conto di aver sprecato, umiliato, tradito e sfruttato il linguaggio per così tanto tempo, ha deciso di dargli giustizia e, per riuscirci, prova a liberarlo. Ma la voce, rimasta prigioniera così a lungo, è come una bestia rilasciata nel proprio ambiente dopo tanti anni di cattività: ha paura. Bisogna persuaderla ad andare via, a scappare, a tornare casa. Le modulazioni e i cambi di tono dell’uomo che non smette di roteare sono proprio questo, dei tentativi di persuasione. E al contempo un modo per provare a chiedere perdono. Eppure entrambi i tentativi sembrano non funzionare. Per quanto l’uomo si sforzi, per quanta energia impieghi, il linguaggio non trova il coraggio di abbandonarlo, gli resta attaccato addosso, disegna la proprio punteggiatura sulla sua camicia bianca: ecco i segni di sudore, in principio minuscoli, che crescono insieme alla consapevolezza del fallimento imminente. Arrivato a questo punto l’uomo non ha che un ultimo appiglio, il più esigente, il più aspro, la disperazione. Ed è alla disperazione che l’uomo si aggrappa, ed è alla disperazione che l’uomo affida le proprie speranze. La ricca modulazione di registri non è bastata, la rassicurante e ossessiva rotazione non è bastata, c’è bisogno di un’intuizione. L’intuizione arriva. L’unico vero modo per tentare di esaudire una voce, e quindi di risarcire il linguaggio per lo spreco a cui è stato sottoposto, è il canto. Proprio con il canto, l’uomo si congeda. Lontano dai propositi di vendetta, lontano dal senso di oppressione che verso quei propositi l’aveva condotto. Ospite di un buio soffice, ospite di una sconfitta migliore.
di Enrico Pastore
Dal buio emerge un bisbiglio. Flebile, quasi impercettibile. E poi la luce, dapprima leggera, in un delicato crescendo a scolpire l'emergere del corpo portatore di una vocalità sempre più cangiante e ricca.
Al centro di uno spazio delimitato dal pubblico Massimiliano Balduzzi ruota lentamente agganciando con lo sguardo tutto il pubblico, e nel roteare dice parole. Un salmodiare in una sconosciuta, arcana e remota lingua di sciamano. Il mulinare del corpo, axis mundis, perno di ruota, lento o veloce, dissemina la parole nello spazio come frecce di balestra. Non c'è nulla da capire. Quello che viene detto non ha significato. “Io non ho niente da dire e questa è tutta la poesia che mi serve”, così diceva John Cage nella sua Conferenza sul niente. Uno zero che contiene l'infinito, come il matto dei tarocchi. Siamo di fronte a una sottrazione. Un togliersi di mezzo come diceva Carmelo Bene. Resta il suono, la parola magica e potente, quella in grado di evocare cielo e terra attraverso mille sfumature. Il corpo accompagna senza sottolineare. Il volto è maschera, un velo disvelante potenze incorporee. Per i greci l'attore era Hypokrites, termine riferito all'oracolo e a chi comunicava fatti segreti. Hypokrites era colui che evocava con la voce facendosi passare attraverso dai sussurri di dei e ninfe. Non era un simulatore. Il concetto era totalmente estraneo alla cultura greca. Non si diceva ma si era detti, attraversati da qualcosa che stava aldilà, portavoce di potenze fuori dal nostro controllo. A interpretare era qualcun altro. É questa l'azione di Massimiliano Balduzzi in Lunatico. Un performer che si sottrae, si lascia parlare facendosi strumento per dare corpo ai suoni di una lingua senza significato eppure portatrice di ogni significato. Siamo noi pubblico a colorare la ricchezza di questo linguaggio. I nostri ricordi e sensazioni, l'essere presenti e in ascolto, tutto concorre nel creare l'esperienza disegnando sfumature diverse per ciascuno. Ogni punto di vista è accettato e compreso, come nella rotazione del corpo, quel punto in rivoluzione che abbraccia tutta la circonferenza. Massimiliano Balduzzi incarna in sé una tradizione d'attore nello stesso antica e contemporanea, La sua lunga prassi di training vocale sotto la direzione di attori di scuola grotowskiana e la pratica di quel teatro balinese che a suo tempo tanto affascinò Artaud, in lui agiscono nel ricreare sia la parola magica e potente, quella capace di conferire efficacia reale a un suono, sia la possibilità di sfuggire alla morsa della significazione e dell'asseverazione. In principio era il Verbo, così nella nostra cultura. La parola è creatrice, punto d'origine del mondo. Tutto si spiega e acquisisce realtà per mezzo del Logos. Non così in Oriente dove Vac, la voce, ultima emerge dal corpo del padre Prajapati dopo la creazione. La parola alla fine, a legare con fili sottili la fragile trama del reale. Essa, come la visione, presuppone un terzo elemento: l'ascoltatore e l'osservatore sono gli autori veri della creazione. In essi si sostanzia ciò che accade. È dunque il pubblico a conferire solidità a ciò che appare tra due segmenti di oscurità. Dal buio emerge un corpo e una voce, così come nell'ombra si dissolve il canto dopo averci permesso, per un breve istante, di esperire la mutevole ricchezza del mondo.
Scrivere la danza, un'analisi di Graziano Graziani
Scrivere la danza è una questione di prospettiva, sguardo e parole. Questa seconda edizione del progetto – un piccolo esperimento in cui chiediamo a degli scrittori di farsi un po’ critici, raccontando uno spettacolo che hanno visto a TenDance – lo conferma in pieno. Se alcune parole di base – come “corpo”, “movimento”, “danzatrice” – sono le stesse che utilizzano i critici di mestiere per descrivere gli elementi dei tre spettacoli presi in considerazione, l’andamento del racconto prende strade decisamente differenti. La visione, che negli articoli dei professionisti della critica teatrale e di danza è inserita in un contesto stratificato di segni, di movimenti e di relazioni con la storia recente e meno recente della danza contemporanea, a cospetto degli scrittori diventa un’epifania per immagini alla quale reagire: scrivendo come risposta a ciò che si è visto, o addirittura immaginando ciò che c’è dietro un’immagine coreografica – una storia, un intreccio, una questione – lasciando correre libera la fantasia.
Nel caso di “Yes, of course it hurts” della Compagnia Spellbound, Simone Nebbia propone un’analisi molto lineare, che dall’ispirazione del titolo – una poesia di Karin Boye – traccia i presupposti di un lavoro coreografico che oscilla tra “tensione” e “liberazione”, ne descrive gli elementi coniugando termini più tecnici (“sculture corporee”, “aspetto plastico”, “performativo”, “espressivo”) con altri più evocativi (“raccoglimento intimo”, “sensualità”, “bellezza”, “sofferenza”) che servono a leggere l’aspetto più poetico dell’opera. Le considerazioni tecniche e quelle poetiche si alternano e si intrecciano fino alla conclusione dell’articolo, che descrive l’azione che guida secondo Nebbia tutto lo spettacolo: il “dolore” è il motore con cui “la paura della solitudine” si trasforma poi in “vocazione alla vita”.
Nel testo di Gaia Cenciarelli, che raccoglie la sfida della lettura critica, nonostante si faccia ricorso a parole e concetti simili (“dolore” su tutte), l’andamento del racconto è molto meno astratto. Sin dall’incipit: “Sì, certo, fa male”. Un’attestazione che è allo stesso tempo lettura di ciò che si vede e anche presa in carico, racconto (quasi) in prima persona. I concetti astratti evocati da Nebbia con precisione, qui si arricchiscono di attributi fisici, carnali (“istinto”, “mimica animalesca”, “dolcezza violenza”), affrescando la metamorfosi che secondo Gaia Cenciarelli è al centro del lavoro: il passaggio da movenze meccaniche (“ingranaggio”) a una danza animale, che esprime “sofferenza” ma anche desiderio di riscatto. Il racconto di Gaia Cenciarelli è un racconto caldo, che non invoca una posizione super partes, ma si domanda che ruolo ha lei, che osserva, in quello che accade (“non ci vuole molto a sentirsi chiamate in causa”). Certamente c’entra il fatto che chi scrive è una donna, ma nel resoconto compaiono subito quelle che sono le istanze profonde che muovo in corpi, secondo Cenciarelli: “la voglia di essere salvate”, “il desiderio di essere accettate”. Oltre a cercare forme evocative, nel rendere conto di qualcosa, per quanto si tratti di questioni interne, immateriali, l’autrice sceglie sempre una forma di descrizione che ha a che fare con un’azione (“il dolore rischia di annichilire l’anima”). L’azione intrecciata alla questione profonda, filosofica, che chiama in causa chi guarda non solo per descrivere ciò che vede, ma anche per capire che parte ha, è lo strumento di lettura di Gaia Cenciarelli che, da scrittrice, crede che ogni gesto abbia necessariamente dietro una storia.
Anche nel caso di Isabella Giustina, che presentava l’assolo “Mutamenti”, la principale differenza tra l’articolo di critica di Roberto Giambrone e il resoconto da scrittrice di Carmen Pellegrino è sul modo di trattare le categorie, più o meno astratte, che sottendono il lavoro. Nel caso di Giambrone, che realizza un articolo di classica e limpida analisi, tali categorie si intrecciano con terminologia tecnica e sono individuate, sostanzialmente, come dispositivi poetici che innervano lo spettacolo. Giambrone parla di “luci e ombre”, “sospensione e movimento”, “pudore e timore”, ovvero i due poli opposti attraverso quale si dipana la “metamorfosi”, il mutamento evocato dal titolo. Così Giambrone parla di “plasticità chiaroscurale delle forme”, di “contraction-release”, di “fall-recovery”, di “sequenze di movimento”; ed evoca una genealogia del “teatrodanza”, che arriva fino a Mary Wigman, la “pioniera della danza espressiva”. Questo armamentario di concetti tecnici, tuttavia, non servono ad eludere il racconto, ma a inquadrarlo nella storia della danza. Giambrone rileva anche gli aspetti caldi dell’assolo, dalla “profondità delle emozioni” alle “volute” disegnate da gambe e braccia, dall’evocazione di un “grumo oscuro dell’interiorità” a un “contatto primordiale col suolo”. Ricondurre all’alveo del raziocinio e dell’analisi ciò che “esplode” sul palcoscenico sembra essere la linea di resoconto del pezzo.
Carmen Pellegrino si muove su un campo diametralmente opposto. A partire dalla forma, che è quasi una lunga poesia che – ancora una volta – serve a rispondere all’immagine estetica, coreografica, a cui ci si è esposti. Il “corpo” della “danzatrice” è un termine – anzi, dei termini – ripetuto molte volte, quasi come in un mantra, che serve ad evocare poeticamente sulla pagina quello che si è visto prendere forma sulla scena. È il corpo di una “donna-bambina”, per stare ancora sul solco del mutamento, della trasformazione. È un elenco di aggettivi e stati, quello che riguarda il corpo esposto della coreografia, un corpo “preteso, abitato, ammassato, invecchiato, morto”. Un corpo “che non si arrende”. Attraverso l’elenco, che è forma classica tanto della poesia che delle avanguardie, Carmen Pellegrino dialoga col ritmo della scena e traccia, senza mai scadere nell’astratto, tutte le sfumature che secondo lei sono state attivate da quel corpo. Per spiegare l’emozione ricorre a parole desuete e conia neologismi (“discontrollo”, “percettologia”), ma nonostante siano termini che ricorrono ad una buona dose di astrazione – come accadeva nell’articolo critico – l’obiettivo non è la presa di distanza analitica, piuttosto è l’abbandono al flusso della percezione. E poiché la danza, come la poesia, non può dire tutto ma deve lasciare spazi all’evocazione, il testo procede con delle domande che tracciano il perimetro di quello che non si può dire altrimenti: “può essere raccontato un corpo straziato?”, oppure “come lo descrivi il corpo bloccato nel dolore?”. Carmen Pellegrino, come già Gaia Cenciarelli, si sente coinvolta, chiamata in causa, e per questo risponde attraverso la scrittura: il racconto diventa pian piano una lettera indirizzata alla danzatrice, “da donna sola a donna sola”. “O danzatrice, ti ricordi…?”, “O bimba, io ti osservo”. Di nuovo il corpo di Giustina incarna la metamorfosi dalla forza alla fragilità, dall’età adulta a quella infantile. Ed è un’esposizione che chiede e ottiene “pietà”. A un’immagine estetica, dunque, Carmen Pellegrino risponde con un’altra immagine estetica e così il corpo – parola che ricorre ben trenta volte nel testo – diventa “perimetro della nostra anima”.
Non è diverso il raffronto tra le scritture attorno a “Lunatico” di Massimiliano Balduzzi. Enrico Pastore, comincia il suo pezzo con una descrizione di ciò che avviene in scena: un convulso roteare del performer che pronuncia contestualmente le parole di una lingua che conosce lui solo. Il gruppo di parole “ruota”, “roteare”, “mulinare” vengono ripetute più volte. Ma prima di accennare una spiegazione analitica, Pastore disegna una mappa di associazioni poetiche ed estetiche: la lingua che ascoltiamo è una lingua “di sciamano”, che ha a che fare con la “parola magica”, così come il “corpo” ruotando produce un movimento ipnotico. Subito dopo l’evocazione, però, è l’analisi che occupa il centro e la fine dell’articolo. John Cage, Carmelo Bene, Antonine Artaud e Jerzy Grotoski sono i vertici di una genealogia teatrale che si incrocia con i dispositivi del teatro classico e contemporaneo, come il “training vocale” o l’attore chiamato nell’antica Grecia “hypokrites”, con tutto ciò che ne deriva in termini filologici. Il meccanismo di generazione di significato dal non significato, del “nulla da dire” – per dirla con Cage – che diventa la poesia che si dice, viene ricondotto a una serie di precedenti teatrali e artistici illustri, che hanno tracciato il solco lungo cui si iscrive anche “Lunatico”. Questa analisi, portata fino in fondo al pezzo, si apre proprio sul finale all’evocazione dell’emotività quando, in chiusura, evoca il “canto” che è in grado di far percepire la “mutevole ricchezza del mondo”.
Per Orso Tosco, scrittore, un’immagine è sempre e comunque l’innesco di una storia. Anche lui comincia con un ascendente artistico (George Perec). E anche lui parla di “voce” e “linguaggio”, di “rotazione” e “spazio”. Ma questi elementi sono il pretesto per una detonazione narrativa. Perché – si chiede Tosco – un uomo in camicia bianca e pantaloni si trova a roteare su se stesso pronunciando parole senza senso? È forse un “lavoratore in pausa” dal lavoro, oppure un “operatore finanziario” incappato nel burn out? Allora parole come “energia”, “sforzo”, “disperazione” sono gli elementi concretissimi della possibile storia di questo “dirigente di compagnia”, un Bartleby contemporaneo. Orso Tosco si lancia in una serie di possibili spiegazioni. Se quest’uomo sembra “stare male” forse è perché sta davvero male. È il risultato di un mercato del lavoro “competitivo e feroce”, che manda fuori di testa, ed ecco spiegata l’origine di questo “derviscio demente”. Cosa fare di una persona così? Licenziarla? Ma può diventare pericolosa… Ecco qui servita una storia articolata a partire da un gesto ripatitivo. Tosco immagina che “ritmo”, “gestualità” e “significato emotivo” del canto del derviscio e del suo ruotare siano un doppio movimento: da un lato la “vendetta” del lavoratore, che libera il linguaggio represso trasformandolo in canto, dando “giustizia” a una “voce prigioniera”. Dall’altro, la trasformazione in “canto” scioglie la stessa vendetta, che non è più un gesto violento, offensivo, ma si trasforma in “risarcimento”. Lo scrittore utilizza il lessico della lotta di classe, anche se la vicenda rimanda a una storia di lavoro contemporaneo. La immagina lui, a partire da un’immagine coreografica, che è quello che potrebbe fare un qualunque spettatore. Se cerca una spiegazione è una spiegazione di racconto e per questo anche le sue parole più astratte come “disperazione” – che è comunque un sentimento, e come tale concretamente visibile – sono sempre l’innesco di qualcosa di agito, oppure il risultato di qualcosa che è successo. Lo stesso avviene per le considerazioni dello stesso Tosco: “quest’uomo non smette”, è sempre un’azione quella che abbiamo sotto gli occhi. Ed è singolare che tutto questo nasca da un elemento formale – il costume del danzatore – che agli occhi degli esperti era apparso quasi come un simbolo puro, senza storia, e che in questa lettura di Orso Tosco torna ad assumere la funzione originaria del costume teatrale: evocare un contesto e un’epoca ben precisi.