Il telefono squilla in un giorno di marzo; annuncia l’invito a partecipare a “Scrivere la danza”, il progetto immaginato e poi realizzato da due visionari come Danila Blasi e Graziano Graziani nell’ambito del TenDance festival di Latina: uno spazio di confronto tra due categorie di persone, quelli che fanno (e sanno di) danza e quelli che non ne capiscono una sega.
– Assisti a uno spettacolo, ne scrivi e il giorno dopo leggiamo insieme davanti al pubblico; mi spiegano.
Sembra divertente, accetto. Nessuna responsabilità: va da sé che faccio parte della seconda categoria.
Parodo: l’arrivo. L’inconscio e Io
– Cinquemila metri quadrati. Leggi il programma del TenDance, è scritto lì. Cinquemila metri quadrati di “MADXI museo contemporaneo” occupati da MADXIdance, mostra di arti visive dedicata alla danza.
– Cinquemila metri quadrati è la dimensione dello spazio. Di tutto lo spazio. Non quella delle sale dedicate alla mostra.
– Fossero pure cinquecento, per me… Cinquecento metri quadrati di barriere architettoniche tra chi fa danza o, almeno, sa di danza: tutti; e chi non ne capisce niente: io.
– Tu-tùm tu-tùm tu-tùm. Hai questo ritmo interiore che ti è dato dal cuore. Puoi ballarlo e cantarlo.
– Tu-tùm tu-tùm il cavolo! Io non ballo e non canto. Potrei fare il pugile, come Rocky. Te lo ricordi quando Adriana gli chiede perché fa il pugile? Ma che mi giustifico a fare? Io non so nemmeno tirare di boxe. Se fossi una boxeuse parlerei con le gambe come i danzatori.
– Sei qui, adesso. Guardati intorno e basta.
– Perché ho accettato un invito a una cosa che si chiama “Scrivere la danza”? Il movimento più simile a passi di ballo che ho fatto nella vita è stato per raggiungere il gabinetto della cabina quella volta che il traghetto per Barcellona si è messo a dondolare sulle onde e dovevo vomitare.
– Sei qui, adesso. Guardati intorno e basta.
– Com’era quella battuta di Lord Byron? Nessun uomo ragionevole vuole danzare.
– Uomo!
– Sostituisci con donna.
– Sei qui, adesso. Guardati intorno e basta.
– Ancora?! La smetti, inconscio invadente e uggioso?
– Il dialogo interiore con il proprio inconscio è un eccellente esempio di pas de deux.
– Sono stata una volta al saggio di danza della figlia di un’amica. Quattordici bambinette in tutù e tre ragazzini in accademica. Dopo due ore di arabesque e demi-plié ho capito perché Giselle ruba la spada ad Albrecht pur di farsi fuori.
– Sei qui, adesso.
– Uff! Mi guardo intorno e basta?
– No. Osserva con i deltoidi, con i flessori radiali del carpo; con l’alluce e la pianta dei piedi; con la colonna vertebrale. Abbraccia lo sforzo. I ballerini lo fanno. Per questo possono tradurre la vita in trasalimenti e abissi.
– Ne sai un sacco, eh?!
– In quanto inconscio personale ho diritto a ricevere informazioni dall’inconscio collettivo, ricordi?
Episodio 1: la mostra
Ho ubbidito alle scelte del curatore, che poi è anche il direttore del museo, Fabio D’Achille. Il sorriso gentile di Manuela Cirfera mi spiega che anche i danzatori hanno fatto così. Lungo i muri, sul pavimento, dal soffitto, quadri, fotografie, installazioni e sculture decidono lo spazio geometrico. Gli artisti vedono e creano tra le cose che ci sono, in libertà condizionata. Proprio come nella vita, penso. Comincio il giro. In una sala qualcuno ancora prova. Nessuna barriera architettonica; un’espressione dialettica, piuttosto. L’esposizione a MADXIdance è elegia dissimulata in materia fisica.
O magari il contrario.
Fatto sta che smetto di duellare con il mio inconscio e vado incontro al futuro ancora da preconizzare.
Episodio 2: il lato b del movimento è la stasi
Comincia il pentametro giambico a sostanziare di sguardo tutto. È il tempo sonoro di Kae Tempest, (di Shakespeare), di Kae Tempest nella sua metrica bruciante. Lo fa nella cecità di Tiresia; «all’ora viola» come nel Sermone del fuoco di T.S. Eliot: «l’ora serale che tende verso casa». Al MADXI di Latina sono le 19.45 quando vedo Tiresias Bside, un progetto di Bluemotion con regia, drammaturgia e video di Giorgina Pi.
Gabriele Portoghese e Giulia Weber sincopano il ritmo del lato b delle esistenze, il compimento perfetto per restare ciò che siamo. Lo fanno immobili, dietro a un microfono.
«Siamo rimaste ferme e abbiamo lasciato che si muovesse il pianeta», recitano così i versi di chi nasce tempesta. Dietro, il rosso del disegno luci di un sagomatore che sembra pensato da Rothko si squaglia in bolle gialle di plastica fusa,
Interi.
Però composti. Di un davanti, di un dietro, di due lati. Lo vedi nei corpi e nelle vicende personali. Interi ma composti di pezzi; come singoli e come umanità.
Episodio 3: spostare l’attenzione all’interno del corpo
Pezzi. Bocconi. Componenti. Stralci. Esemplari.
Schegge. Duttili, eppure aguzze taglienti. Sono i corpi di Barbara Carulli e Valentina Foschi che danzano il concept di Paola Bianchi.
Pezzo 1. Che nessuna memoria cancella, che ciascuna memoria graffia per sempre su un nastro magnetico che in sottofondo sfrigola e piove, che qualche memoria animale deposita nei muscoli, nelle posture.
Episodio 4: It’s Ok Not To Be Ok
Annetto un altro pezzo; ritagliato da un’altra narrazione: quella di Daniele Ninarello.
Denuncia ballata o forma compiuta di trionfo?
La celebrazione della vulnerabilità fa del corpo un’azione di protesta.
Due spoglie giacciono riverse a terra. Quella di un uomo che sembra vittima di uno stupro e quella di una chitarra elettrica che verrà stuprata – anche se ancora non lo sappiamo – da una furia di ribellione al vedere, al patire, al subire. Al proprio se stesso nel rappresentare e nel rappresentarsi, mi è sembrato.
Il busto dell’artista è irregimentato da una giacca nera. Mi risale chissà da quale anfratto di memoria un termine antico, ormai desueto: pudenda. Il culo dell’artista affiora da «una condizione di solitudine prolungata, di isolamento, in ascolto di tutte quelle voci» che lo informano di chi è. Prendo in prestito le sue stesse parole per dirlo, le copio da una sorta di testimonianza firmata che ci ha fatto trovare sulle sedie.
Stasimo: dove l’inconscio si prende la rivincita
Datemi i cinquemila metri quadrati del MADXI, voglio beccheggiare, saltare, cascare, scuotermi via dagli arti, dal cervello tutti gli atti di bullismo che ho subìto. Voglio rivendicare il mio diritto alla sfiga e farne amore da darmi, da dare. Cerco un’interlocuzione: – Inconscio invadente e uggioso, chiedimi come sto.
– Lo so, come stai. So tutto di te.
– Chiedimi come sto; voglio dirlo. Adesso.
– Come stai?
– Furiosa per tutte le volte in cui mi sono messa in scena! Ho voglia di ballarle via.
– Ci avrei giurato che finiva così.
– Ricominci a fare il saccente? Torna a impicciarti degli affari tuoi.
– Le cose che ti succedono dentro sono, affari miei! C’è gente disposta a pagare cento euro a seduta per decenni pur di ascoltarmi e tu dovresti ringraziare se ti parlo gratis.
Episodio 5: ritorno ai Pezzi
Leggo sul programma di sala la storia di Fiorella Rodella che, nel 1995, per la tesi di laurea in psicologia raccolse racconti di partigiani, antifascisti e semplici cittadini deportati nei campi di sterminio. Vedo, medito, assorbo i suoi testimoni nella logica anatomica delle posture iconiche di Carulli e Foschi in camicetta grigia, in una forma che si fa sostanza, guizzanti, sguscianti, nel lento avanzare della Storia. Le loro braccia di tanto in tanto sembrano allungarsi a disegnare un perimetro personale in quello più ampio che un’epopea schifosa e ignobile progettò a Dachau, Mauthausen, Auschwitz, Buchenwald.
In Pezzo 2 il progetto di lavoro sul corpo elaborato da Paola Bianchi riconsegna alle sue danzatrici il potere autopoietico di un’indicazione primaria che si manifesta nell’ambiente sonoro ideato da Stefano Murgia.
Episodio 6: ostinatamente in ostinato corpo
Al pezzo di storia che segue i miei organi interni assistono danzando ma da fuori si vede soltanto che osservo. O almeno così credo. Giovanna Velardi è un mucchio di cose e la performance Autobiografia fa quello che può per tenerne insieme le sillabe parlate dal corpo in una manciata di quarti d’ora. Indossa un naso da pinocchio che nella mia visione del mondo interpreto come metafora dell’esercizio del dubbio. Ogni vita è esorbitante. Vero e falso si confondono in quello che ciascuno può raccontare di sé: “l’identità narrativa è un chiasmo tra storia e finzione”; cito a mente Paul Ricoeur.
Ceci est bien l’autobiographie de l’artiste! Anche nella versione palermitana:
E chissa propriu ‘a so vita, iè.
Episodio 7: “bestia interna”
La parte maledetta è quello a cui diamo il nome di poiesi. Qui al TenDance 2024 un ritorno a Paola Bianchi, dopo il concept di Pezzi, nel docu-film di Clemente Tafuri e David Beronio.
Ascolto, e le parole che ascolto mi si rovesciano: vedo una forma più umana, perché è corpo che si fa parola. Corpo sociale, politico; corpo integrale. Luogo da cui parte e a cui torna ogni interpretazione del singolo, misura di sé perennemente “in situazione”. Bestie a cui è stata cambiata la destinazione d’uso, questo siamo noi creature umane. E allora, parafrasando Mikhail Baryshnikov, non sforziamoci di ballare l’esistenza meglio di chiunque altro, cerchiamo piuttosto di ballarla meglio di noi stessi.
Esodo
Mi alzo dal letto al mattino dopo una notte dormita poco, piena ancora di gesti e di parole che voglio scrivere.
Una domanda precede la colazione: – Ma i danzatori, dèi ossimoricamente metafisici e incarnati, così allenati ed elastici, si svegliano con il mal di schiena e la cervicale come noi umani?